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Riforme più facili senza i partiti

L'Aula di Montecitorio durante la votazione sulla manovra finanziaria

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Con lo scrupolo che lo distingue, il presidente della Repubblica si è preparato nelle scorse settimane alla manovra finanziaria, ben prima che ne ricevesse formalmente il testo dal governo, consultando chiunque gli capitasse a tiro e fosse da lui ritenuto provvisto di un'adeguata competenza ed esperienza, anche di natura ministeriale. Fra questi, ce n'è uno uscito dall'ufficio di Giorgio Napolitano con un certo magone, se non rimorso, di cui mi ha confidato il motivo. Che vale la pena riferire perché aiuta a capire la situazione. E può essere di una certa utilità allo stesso capo dello Stato, che non avrà forse difficoltà a riconoscere proprio da questo racconto l'interlocutore che quel giorno cercò di sottrarsi alle sue curiosità e lo deluse per una certa genericità delle risposte. Che fu dovuta, glielo assicuro, non a cattiva volontà, o a furbesca reticenza, ma al timore di ferire la sua sensibilità politica. Che, non foss'altro per ragioni anagrafiche, ha preceduto nel presidente della Repubblica la sensibilità istituzionale. Non si può umanamente e ragionevolmente pensare ch'egli possa o voglia liberarsene come di una zavorra. Quel suo illustre ospite si trattenne dal dirgli che la situazione economica e finanziaria del Paese, con i vincoli che gli derivano dalla partecipazione all'Unione Europea, è aggravata dalla inadeguatezza dei partiti: di quelli della maggioranza di governo, certo, ma pure di quelli d'opposizione. Anche nel biennio 1992-93 l'Italia attraversò una crisi economica e finanziaria pesantissima, dalla quale uscì con misure che i governi dell'epoca, presieduti prima da Giuliano Amato e poi da Carlo Azeglio Ciampi, assunsero rispondendone di fatto più al Quirinale che ai partiti, più o meno tutti sotto schiaffo giudiziario: alcuni già pesantemente colpiti dalla valanga di Tangentopoli ed altri a rischio di esserne travolti anch'essi. In quel clima di paura e di disorientamento la politica si arrese in qualche modo ai tecnici e si protesse dai rischi di una diffusa impopolarità rinunciando spontaneamente, e forse anche troppo frettolosamente, a qualcuna delle sue prerogative istituzionali. Fu, per esempio, ridotta agli ossi degli arresti e delle perquisizioni personali o domiciliari la vasta immunità parlamentare garantita dal vecchio testo dell'articolo 68 della Costituzione. Napolitano, che era allora presidente della Camera, lo ricorderà molto bene. Anche oggi, a dire il vero, i partiti sono sotto schiaffo giudiziario. Lo sono almeno i due più grandi, anche se il Pd-ex Ds, ex Pds, ex Margherita, ex sinistra democristiana ed altro ancora minimizza i guai dei suoi esponenti, di vario livello, e cavalca con la solita disinvoltura quelli di Silvio Berlusconi e dei suoi amici. Ma nel suo complesso il sistema partitico ha ripreso forza rispetto alla fase terminale della cosiddetta Prima Repubblica. L'ha ripresa a tal punto da permettersi di sfidare l'opinione pubblica arroccandosi più o meno apertamente nella difesa dei privilegi e dei costi della politica proprio mentre vengono imposti ai soliti cittadini comuni e indifesi pesantissimi sacrifici. Nella stessa aula di Montecitorio dove ieri è stata approvata in via definitiva la manovra finanziaria solo qualche giorno fa i tre maggiori partiti - il Pdl, il Pd e la Lega - hanno avuto la faccia tosta, anzi tostissima, di salvare le province, tanto costose quanto ormai inutili, da una soppressione da tutti promessa più di trent'anni fa, quando furono create le regioni a statuto ordinario. Dall'impegno di sopprimerle si è passati a quello di "razionalizzarle", senza ritegno alcuno, o paura dei forconi. Si è trovato il modo, il tempo e la sfacciataggine di caricare di nuovi balzelli milioni e milioni di sprovveduti cittadini, sani o malati che siano, sì, anche malati, e non quello di ridurre subito e sul serio le indennità dei parlamentari, i loro vitalizi, quelli dei loro omologhi locali, i cosiddetti rimborsi elettorali dei partiti, come vengono eufemisticamente chiamati i finanziamenti pubblici soppressi a suo tempo con un referendum, e le tante altre cose che concorrono a fare della politica italiana la più dispendiosa d'Europa, e forse del mondo. Per sottrarsi a questi elementari doveri di coesione nazionale, non meno pressanti di quelli invocati dal presidente della Repubblica per la rapida approvazione della manovra finanziaria, si è fatto ricorso persino all'espediente penoso della solita commissione di studio, sempre utile a perdere tempo. E si è avuta la sfrontatezza di invocare il rispetto dei "diritti acquisiti". Come se non fossero tali tutti quelli della gente comune recisi o tagliati dalle misure appena approvate. E da quelle che inevitabilmente seguiranno, del resto già preannunciate, sino a quando non si smetterà di tagliare il debito pubblico da una parte e di continuare dall'altro ad alimentarlo con una spesa smisurata come quella di cui ha bisogno il nostro onnivoro sistema politico, refrattario a ogni seria riforma strutturale.

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