Una manovra socialista? No, è solo comunista
Caro direttore, tu e il solitamente ottimo Francesco Perfetti mi avete mandato ieri il caffè di traverso bollando come socialista, senza neppure l'uso prudenziale delle virgolette, la indecente manovra finanziaria del governo. Che è passata come un missile nello spazio parlamentare, ma ben difficilmente potrà passare indolore nelle case degli italiani. Dove crescerà la rabbia sia contro chi l'ha varata, sia contro l'opposizione che l'ha lasciata passare in quattro e quattr'otto votando contro solo per finta. Ma di quale socialismo e di quali socialisti scrivete tu e Perfetti? Me lo chiedo con la stessa, amichevole franchezza con la quale Davide Giacalone ti ha invitato, sempre ieri, a non confonderlo con quella troppo generica ed evanescente categoria di liberali di cui spesso si parla per esaltarne le virtù. E difenderne la sopravvivenza dai rischi di morte, appunto, da socialismo. Ritengo che di socialismo non ci sia proprio niente in questa manovra finanziaria ingloriosamente entrata in vigore, che fa scempio del buon senso e del ceto medio, senza aiutare i meno abbienti e tagliando molto meno del superfluo ai ricchi, quelli veri. Di socialismo, c'è anzi meno di niente, nonostante il tanto che avete visto voi. E con voi anche il mio pur carissimo amico Antonio Martino, con il quale se l'è giustamente presa ieri in una breve lettera al «Corriere della Sera» Stefania Craxi, non foss'altro per difendere la memoria politica di suo padre, Bettino. Di cui Martino, anche se Stefania non glielo ha rinfacciato, dimentica il merito di avere riportato i liberali, quelli del vecchio Pli, nel suo governo nel 1983 contestandone coraggiosamente e modernamente la incompatibilità con i socialisti sostenuta in passato dal Psi. E accettata dalla Dc. I socialisti di cui tu, caro direttore, Perfetti e Martino parlate con spirito critico, se non peggio, risalgono al frontismo dell'immediato e ultimo dopoguerra, o agli anni di Francesco De Martino, il segretario del Psi che sognava uno Stato nel quale di privato ci potessero essere solo le botteghe dei barbieri. E lo pensava giusto per mettere la sua faccia al riparo dai rischi di un rasoio imbracciato da mano tanto pubblica quanto avventata. Con Bettino Craxi quella storia residua di socialisti finì, archiviata con la falce e il martello, sostituiti nel simbolo del partito con un garofano. Che magari fu disegnato male, visto che Sandro Pertini mi disse una volta di averlo scambiato per un pennello da barba, per rimanere nel linguaggio e nelle immagini demartiniane, ma che segnò una grandissima svolta a sinistra. Dove Enrico Berlinguer accusò Craxi di avere trasformato i socialisti «geneticamente» solo perché li aveva sottratti al guinzaglio dei comunisti. E li aveva proiettati dal filocomunismo al liberalsocialismo. Lo stesso Perfetti, d'altronde, che è uno storico di prim'ordine, pur scrivendo che questa manovra «ha ben poco, se non nulla di liberale e molto, moltissimo di socialista», ha sentito il bisogno di paragonarne gli autori, ispiratori e sostenitori, peraltro chiusi nella difesa dei privilegi costosi della cosiddetta casta politica, alla «Nomenklatura» dei vecchi paesi del «socialismo reale». Cioè, del comunismo. Ecco qual è la «deriva», come la chiama Perfetti, di questa manovra: una deriva non socialista ma comunista. Confondere le due cose non è giusto. Stavo per scrivere che non è onesto, ma ne sono stato trattenuto dalla conoscenza che ho dell'onestà del professore Perfetti, sotto tutti gli aspetti. Questa deriva non socialista ma comunista del governo attuale è tre volte paradossale e inquietante. Una volta per la natura di centrodestra dell'elettorato che ha permesso a questa maggioranza di nascere, e di sopravvivere anche alle giravolte politiche di Gianfranco Fini. Una seconda volta per la personalità stessa dell'uomo che la guida. Che è Silvio Berlusconi, il quale vede e lamenta la presenza dei comunisti dappertutto, magari anche dove non ci sono. E che a questo punto avrebbe dovuto rifiutare di prestare il suo nome e la sua faccia a misure estranee alla propria cultura e poi anche storia politica. È una manovra, questa, degna solo dei suoi avversari e dei numerosi pretendenti alla sua successione per governi di varia e fantasiosa denominazione, dai quali il capo dello Stato ha meritoriamente voluto prendere ieri le distanze con una lettera ad un giornale finanziario che deve avere fatto accapponare la pelle a molti suoi ex compagni di partito. Una terza volta questa deriva comunista è paradossale per il ruolo di protagonisti che hanno voluto assumere, nella gestazione della manovra, due ministri come Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi, provenienti dal filone più genuino del socialismo riformista, a lungo apparsi come i due garofani migliori all'occhiello del Cavaliere. Tremonti d'altronde già da qualche tempo, attratto da quello che Stefania Craxi ha definito «bossismo», mostrava una certa insofferenza per chi ne ricordava le origini socialiste. Sacconi, dal canto suo, ha dimenticato che il Ministero da lui diretto era chiamato una volta «del Lavoro e della Previdenza Sociale», diventata «Imprevidenza» con le norme varate in questa pazzesca estate.