Ripensare l'euro per salvarlo
Le attuali turbolenze dei mercati e la grave crisi finanziaria di alcuni Paesi dell’Unione Europea mi suggeriscono di riandare a monte delle vicende contemporanee e ripetere alcune considerazioni che mi sembrano di notevole attualità. Mi sono occupato del tema dell’unione monetaria europea da non meno di quattro decenni (il mio primo saggio sull’argomento «La politica monetaria e il piano Werner» risale al maggio 1971). Da economista monetario sono intervenuto a più riprese sull’argomento, ma mentirei se dicessi di essere riuscito a richiamare l'attenzione dei miei colleghi; la stessa sorte ebbero gli articoli sulla stampa quotidiana che scrissi dal 1976. Nel 1979 venni chiamato alla cattedra di Storia e politica monetaria, succedendo a Paolo Baffi che teneva l'insegnamento per incarico. Dal 1979 al 1992 ho avuto molte richieste di tesi; quasi sempre insistevo perché fosse il laureando stesso a indicare l'argomento ma, almeno in un caso, fui io a suggerirlo, indicando come tema l'unione monetaria belgo-lussemburghese. Come noto, infatti, quei due paesi, simili per dimensioni, livello di reddito, sistema politico, cultura e struttura produttiva, avevano adottato la stessa moneta, il franco. Avevano però governi diversi e situazioni di finanza pubblica diametralmente opposte: il Belgio aveva un debito molto elevato in rapporto al prodotto interno lordo, il Granducato aveva un debito irrisorio e un saldo di bilancio sostenibile. Malgrado le grandi somiglianze fra i due paesi, l'unione monetaria aveva conosciuto diverse crisi e in qualche occasione aveva corso il rischio di naufragare. Da qui il mio dubbio: se due paesi che hanno molto in comune non riescono ad adottare un'unica moneta senza problemi, com'è possibile sperare che tutto filerà liscio quando l'intera Europa, composta da Paesi molto diversi adotterà una sola moneta? La tesi sull'unione monetaria belgo-lussemburghese perveniva a conclusioni che rafforzavano i miei dubbi. Tuttavia, finché rimasi all'interno del mondo universitario le mie idee non solo non suscitarono scalpore, vennero semplicemente ignorate da tutti o quasi i miei colleghi. Quando, nel 1994, entrato in politica, divenni ministro degli Esteri, apriti cielo! Sono stato immediatamente etichettato come euroscettico se non addirittura anti-europeo. L'accusa nella prima formulazione era in realtà un grande complimento: anche senza riandare alla filosofia del mondo classico, lo scetticismo ha annoverato alcuni fra i più grandi pensatori dell'umanità. Nella sua seconda formulazione – anti-europeo – era semplicemente grottesca se riferita al figlio di Gaetano Martino, il promotore della Conferenza di Messina del 1955 e dei relativi accordi, della Conferenza di Venezia del 1956, e firmatario dei Trattati di Roma del 1957. Oltre tutto, io non mi sono mai professato contrario all'integrazione dell'Europa o all'adozione di una moneta comune, ma ho sempre criticato l'adozione immediata di una moneta unica perché non ritenevo che fosse realizzabile senza gravi contraccolpi per ragioni squisitamente tecniche. Come ricordato in un precedente articolo, ero d'accordo con Einaudi che auspicava l'adozione di una moneta europea per privare gli stati nazionali di sovranità monetaria, impedendo loro di finanziare le spese con l'inflazione, che egli giudicava la «più iniqua di tutte le imposte». L'indipendenza di Belgio e Lussemburgo in materia di pubblico bilancio era stata alla base dei problemi della comune moneta, il franco. L'euro non ha privato i Paesi che l'hanno adottato di sovranità finanziaria, ha solo dettato delle regole, considerate «stupide» dal Grande Bolognese. Quelle regole, tuttavia, prevedono come sanzione per il mancato rispetto salatissime multe, sanzione assolutamente risibile: se un paese, come ad esempio la Grecia, non riesce a finanziare il suo deficit, una multa onerosa non renderà certo più rosee le sue prospettive di risanamento! Non solo, ma per impedire il fallimento dei Paesi insolventi, cosa sta facendo l'UE? Compra i loro debiti, monetizzandoli in vario modo, tradendo così proprio la ragione per cui Einaudi voleva la moneta europea. La storia monetaria dell'Europa ci fornisce numerosi esempi di come la volontà politica sia impotente in questa materia. La Repubblica di Weimar, monetizzando il debito, diede vita alla Grande Inflazione del 1923-24, splendidamente raccontata dal nostro Costantino Bresciani-Turroni. «Quota novanta», il velleitario tentativo di Mussolini di fissare a quel livello il cambio della lira con la sterlina inglese, venne bollata da Keynes con le immortali parole: «Per fortuna per il contribuente italiano e l'industria italiana, la lira non obbedisce nemmeno a un dittatore, e non le si può somministrare l'olio di ricino»! Infine, il tentativo di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi di impedire la svalutazione della lira ci costò in un solo giorno, il 16 settembre 1992, ben sessanta mila miliardi di lire di riserve ufficiali! Quanto ho finora scritto non è politicamente corretto, ma a me sembra ineccepibile sotto il profilo economico. Se l'UE vuole salvare l'euro, deve ripensarlo: chi viola i criteri imposti per la gestione del pubblico bilancio deve essere espulso dall'unione monetaria. L'alternativa è il futile e assurdo tentativo di imporre un vestito della stessa taglia a Piero Fassino e Giuliano Ferrara!