La stangata: 560 milioni cash
La stangata. Una botta pesante, attesa per certi versi, ma arrivata come un colpo maligno sotto la cintura. Uno di quei cazzotti che fanno gridare allo scandalo l'«angolo» del ring, ma che fanno anche esultare una piazza sempre più forcaiola. Capace solo di vivere delle disgrazie altrui. E di elevare a vittorie morali quelle conseguite non proprio sul fronte, ormai lontano e sbiadito, della lealtà. Insomma, scherma pugilistica poca, la noble art cede il passo alla stangata tipica dei «cavallari» che hanno puntato sulla sconfitta del Cav. Ma la quota era bassa: con i giudici il Berlusca gioca sempre in trasferta e il 2 nella schedina della sentenza se non è d'obbligo, è perlomeno necessario. Tutto questo per parlare del lodo Mondadori: la condanna per Fininvest rimane, ma con lo sconto. Non più i 750 milioni di euro stabiliti dal Tribunale meno di due anni fa, ma 540 milioni (un quarto in meno) che, con gli interessi legali a partire dalla data del deposito della sentenza di primo grado, sfiora quota 560 milioni. È questo il pur sempre maxi-risarcimento indicato dalla seconda sezione civile della Corte d'Appello di Milano dovuto a Cir per i danni diretti e immediati subiti da una corruzione giudiziaria che, più di 20 anni fa, ha permesso di «pilotare» la spartizione della Mondadori in favore di Silvio Berlusconi. Questo ovviamente secondo i giudici. Immediatamente esecutivo il verdetto di secondo grado, arrivato ieri mattina dopo circa quattro mesi di camera di consiglio: anche se ridotta di circa 190 milioni di euro, è probabile che a breve la società della famiglia De Benedetti incassi la somma. Se così non fosse Fininvest, oltre all'annunciato ricorso in Cassazione, può presentare contestualmente alla Corte d'Appello un'istanza per chiedere di sospendere l'esecuzione del provvedimento, ritenendo che da ciò possa derivare «un grave e irreparabile danno». Un brutto uppercut sotto il mento anche per Niccolò Ghedini, storico legale del premier e deputato del Pdl, che cerca di non andare al tappeto, commentando: «La sentenza di stamani (ieri, ndr) va contro ogni logica processuale e fattuale». È la riprova, se mai ve ne fosse stato bisogno, che a Milano è impossibile, quando è anche indirettamente coivolto il presidente Berlusconi, celebrare un processo che veda l'applicazione delle regole del diritto». Poi si è detto convinto che verrà «annullata» dalla Suprema Corte. Due gli ordini di motivi che hanno inciso sulla decisione dei giudici: da quelli legati alla vicenda giudiziaria che ha portato a condannare il giudice Vittorio Metta e gli avvocati Cesare Previti, Giovanni Acampora e Attilio Pacifico, a quelli che riguardano i conteggi, dunque di carattere più tecnico. Così i giudici di secondo grado non solo hanno concluso che il provvedimento con cui nel gennaio del '91 la Corte d'Appello di Roma annullò il lodo arbitrale che aveva dato ragione a De Benedetti fu frutto di una corruzione e quindi «comprato», ma si sono spinti oltre. Hanno ricostruito «che cosa avrebbe deciso un "collegio normale" - si legge nelle motivazioni - dopo un percorso decisionale anch'esso «normale e impregiudicato nelle opinioni di tutti i suoi componenti», cioè senza «Metta corrotto» e senza «anomale patologie», ma «che operasse con gli altri due componenti non condizionati dalle opinioni di un relatore corrotto». Hanno, dunque, in sostanza «rifatto» virtualmente la sentenza di 20 anni fa, basandosi sulla giurisprudenza di allora, per stabilire che la conferma del lodo era scontata perché «la sentenza della Corte di Roma è ingiusta anche nel merito, poichè una sentenza giusta avrebbe inevitabilmente respinto l'impugnazione» della famiglia Formenton senza così consegnare la casa editrice nella mani di Berlusconi. E se il nesso causale diretto tra la corruzione del giudice Metta e l'esito della sentenza «comprata» ha comportato che tutti i danni accertati vengano risarciti a Cir senza alcuna riduzione in nome di una perdita di chance, a determinare lo «sconto» di 190 milioni hanno pesato in particolare quattro fattori: la consulenza tecnica d'ufficio relativa alla variazione degli asset tra il giugno '90 e l'aprile del '91, la mancata valutazione da parte del giudice di primo grado del calcolo delle azioni Espresso acquistate allora da Cir, il mancato riconoscimento del danno di immagine alla holding di De Benedetti e un ritocco al ribasso della valutazione del danno per via equitativa. Alla fine la Corte d'appello ha calcolato che alla data della sentenza «inquinata», il 24 gennaio 1991, il danno subito da Cir è stato di poco più di 160 milioni di euro, a cui si aggiungono circa 24 milioni stabiliti dai giudici in via equitativa, le spese processuali di circa 4 milioni e mezzo. Su questa cifra, poco meno di 190 milioni, sono stati conteggiati rivalutazioni e interessi fino al 3 ottobre 2009 (deposito della sentenza Mesiano) e si è arrivati ai 540 milioni di risarcimento a cui è stata condannata Finivest, al netto di ulteriori interessi legali, che fanno lievitare la cifra a 560 milioni. Furioso il premier: «La tessera numero uno del Pd ha vinto». Il premier si è sentito «vittima di una violenza». «Vogliono farmi fuori - avrebbe detto - sono sotto attacco, ma non mi lascio intimidire, io non mollo, ho il dovere di governare». Poi rinvia l'annunciata visita a Lampedusa per rifugiarsi nella dimora sarda di villa Certosa. E intanto dal Pdl è un vero e proprio fuoco di fila quello che si apre contro la decisione del tribunale di Milano: «abnorme», uno «scempio», una «follia», un «esproprio proletario». «Andate giù pesanti», avrebbe detto ieri Berlusconi a chi dal Pdl si consigliava sui toni usare a commento della decisione. «Come fa a governare un Paese una persona che viene trattata in questo modo?», si sarebbe sfogato, prima di confermare che resta saldamente al suo posto e a levarsi di mezzo, come auspica l'opposizione di centrosinistra, non ci pensa proprio. Marina Berlusconi non usa mezzi termini: «È l'ennesimo scandaloso episodio di una forsennata aggressione portata avanti da anni contro mio padre. Neppure un euro è dovuto da parte nostra, siamo di fronte a un esproprio». I 560 milioni di euro di risarcimento sono secondo la manager «una somma spropositata, addirittura doppia rispetto al valore della nostra partecipazione in Mondadori» Per Cir, invece, la sentenza di ieri «conferma ancora una volta che nel 1991 la Mondadori fu sottratta alla Cir mediante la corruzione del giudice Vittorio Metta, organizzata per conto e nell'interesse di Fininvest».