Oggi Brunetta dice sì
È il grande giorno. Renato Brunetta oggi convola a nozze con la fidanzata Titti Giovannoni. La cerimonia - blindata - sulla costiera amalfitana è a rischio contestazioni, dopo che i precari su Facebook hanno fatto circolare l’invito a «rovinare la festa» al ministro. Qualcuno ha anche ipotizzato la possibilità di un rinvio delle nozze, ma Brunetta assicura: «Non ci penso nemmeno, sono solo barbarie». Si temono anche grandi assenze: non è previsto Silvio Berlusconi, volato in Sardegna per il weekend e dovrebbe mancare anche Giulio Tremonti, protagonista del video in cui a microfoni aperti apostrofava Brunetta come "cretino". Il ministro Brunetta si sposa e i precari vanno a nozze. Con Brunetta e la sua futura sposa. Si sono autoinvitati, con intenti non celebrativi, evidentemente, al matrimonio di chi li ha apostrofati, con cruda nettezza, «siete la parte peggiore del Paese». Ora, non vi è chi non colga - salvo tripli salti carpiati volti alla produzione di falsa coscienza a buon mercato - che un ministro della Repubblica debba passare la sua ragion politica al vaglio della virtù della temperanza, prima di scaricare fendenti di tal fatta a chicchessia. Semplicemente perché la sua persona rappresenta una funzione più grande della sua persona e perfino più grande della sua personale valutazione di merito, un quid pluris che fa del governo una funzione impersonale e, per ciò, efficace. Per un membro del governo vale, mutatis mutandis, quanto scritto dal teologo Balthasar sulla vocazione del cristiano, sacerdote o laico: la persona si identifica con la missione e ciò rende più forte la personalità stessa che compie questo gesto di umile obbedienza a questa realtà. Ciò detto, due fattori sono significativi: a) la barbarie etica ed intellettuale di quanti sostengono: «Chi è causa del suo mal, pianga se stesso» e, dunque, vanno all'assalto della festa del ministro: la linea di condotta dei precari; b) l'errore della moltitudine - perché di questo si tratta - dei precari riflette anch'esso una reattività violenta contro una persona, singola in questo caso, e mostra quanta poca ragion politica circoli oggi in Italia. I nuovi segni dei tempi si rincorrono specularmente ed entrano in un cortocircuito antropologico inquietante. Che c'entra il matrimonio di un ministro, cioè di un uomo che ha una funzione pubblica, con la mia condizione di precario e con il mio disagio sociale? C'entra, e molto, se l'ideologia postmoderna delle moltitudini è appunto quella di considerare pubblico anche il privato, l'eccezione individuale, la singolarità come appendice rampicante sulle pareti di vetro del mondo, per poi ripiombare in un vuoto sociale, la "terra di mezzo": la violenza scatta per trovare la sintesi tra la mia fatica quotidiana e l'Altro, che oggi si sposa e ieri mi ha apostrofato duramente. La sua colpa va oltre la presa di parola del singolo e si accosta a quanto non riesco ad esprimere: il delirio nasce da questo cortocircuito. Un mondo a parte che si pensa privo di mezzi e parole si scaglia come un proiettile stanco contro il Potere. È barbaro chi è estraneo al mondo linguistico-produttivo: questi sono barbari. La politica è tranciata via, nell'impossibilità di rispettare ciò che è sacro, per origine e definizione: il matrimonio. E "sacro" vuole appunto dire separato, in questo caso dai bollori della violenza dei singoli disciolti nelle moltitudini. «Capire è trovare la spiegazione valida per un'istanza unica», scrive il filosofo più separato dal mondo moderno che conosca, il colombiano, conservatore, Nicolas Gomez Davila. Non scriverò stolidamente: dove siamo arrivati? Perché la "ruina", secondo il realpolitiker Machiavelli, arriva quasi sventolando bandiera bianca, sommessamente. Quest'Italia assolata è buia, stanca, brutta e volgare. Volgare è chi sbandiera parole non rappresentative, cioè più grandi del proprio ombelico; morto, in una barbarie di plastica, è l'urlatore compresso nella moltitudine antagonista. Ma «non si può suonare l' "inno alla libertà" con gli strumenti della violenza», scrive l'anarchico Stanislaw J. Lec. Chi ha orecchie per intendere, intenda.