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Il Grillo guerrigliero

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Beppe Grillo

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Ora che Beppe Grillo, arringando i no-tav di Val di Susa, ha aggiunto al suo stile tribunizio un tocco di passione guerrigliera, conviene tornare a dedicargli qualche osservazione. Di lui dirò innanzitutto che ho sempre trovato detestabili non solo le idee che crede di avere ma soprattutto il modo in cui le esprime, e in primo luogo il timbro della voce, che è sempre quello di un molesto botolo ringhioso. Tale egli era del resto anche quando credeva di essere un comico, cosa che in effetti non è mai stato, giacché si è sempre servito del ruolo del comico per inveire, urlare e gesticolare sciorinando banalità raccattate leggendo i titoli dei giornali. Quanto alle cause del suo successo, è evidente che la principale di esse risiede nel fatto che ogni moderna società di massa contiene nel suo ventre vasti sciami di sprovveduti che confondono le oscure ragioni del proprio disagio con le complesse contraddizioni politico-sociali della realtà in cui vivono. L'aspetto davvero inquietante di questi fenomeni è pertanto il corto circuito che si può a volte produrre tra l'estro e il talento di qualche tribuno da strapazzo e gli umori limacciosi dei gruppi umani che possono riconoscersi nella loro "predicazione". È quel pericoloso meccanismo psico-sociale che presiede alla nascita di tutti i fascismi, neri o rossi che essi siano: una sindrome che un grande psicologo austriaco del secolo scorso, Wilhelm Reich, più lungimirante di tanti politici e politologi del suo tempo, definì «gregaristico-autoritaria». È per questo che tutti i movimenti estremistici, sia di destra che di sinistra, non possono fare a meno di uno stile tribunizio. Il solo discorso politico che può farne a meno è quello liberale. La piazza è invece umorale, irriflessiva, tendenzialmente ottusa, e quindi per natura profondamente anti-liberale. Molti aspetti del «grillismo» rimandano ovviamente al clima che si produsse in Italia all'inizio degli anni Novanta, ossia alla vigilia di Mani Pulite e al crollo della Prima repubblica. Anche allora ci fu un movimento d'opinione altrettanto fangoso contraddistinto dall'emersione del mito giustizialista incarnato da Antonio Di Pietro, allora procuratore di giustizia. E difatti anche il «grillismo», come a suo tempo il «dipietrismo», contiene in se l'illusione di poter risolvere i problemi della politica eliminando la stessa rappresentanza politica attraverso una sorta di perpetuo «processo del popolo». Non si parli però di «populismo». Il referente sociale dei movimenti populisti del secolo scorso, con tutta la loro retorica, era pur sempre un'entità chiamata appunto «popolo». L'armento dei «grillini», invece, come tanti altri fenomeni analoghi determinati dall'influenza dei media, non è un «popolo»: è piuttosto un «pubblico» simile a quello dei tanti tele-guitti che infuriano da anni sui nostri teleschermi. Molti si chiedono, naturalmente, se il «grillismo» toglierà voti alla destra o alla sinistra. Ma è e evidente che esso tenta e tenterà di pescare su tutti e due i fronti. Il suo principale nemico resta comunque il Cavaliere, e soprattutto lo strato sociale di cui il «berlusconismo», bene o male, riuscito finora a intercettare le attese. Un grande merito, tuttavia, a questo rabbioso pagliaccio sono disposto a riconoscerlo anch'io: quello di essere riuscito a conquistare un posto di grande spicco in quel capitolo della storia universale dell'impostura che è l'istrionismo italico.

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