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Corsi e ricorsi

Silvio Berlusconi e Angelino Alfano

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Anche se Arnaldo Forlani l'ha definita «una sciocchezza», forse con spirito lodevolmente scaramantico, l'analogia con Angelino Alfano abbozzata dal ministro Gianfranco Rotondi non è per niente campata in aria. Il primo segretario del Pdl non assomiglia al penultimo segretario della Dc solo per la comune origine politica e per l'altrettanto comune predisposizione all'equilibrio, alla moderazione e al dialogo riconosciuta anche dall'ex ministro Claudio Scajola, pure lui di provenienza rigorosamente democristiana. C'è una certa analogia persino nei loro rapporti con i rispettivi genitori politici: Silvio Berlusconi nel caso di Alfano e Amintore Fanfani nel caso di Forlani. Le loro vicende sono distanti una cinquantina d'anni - ahimè per il cronista che le racconta avendole in qualche modo vissute entrambe - ma dense di convergenze. Che dimostrano quanto simili possano diventare le storie degli uomini politici e dei partiti, a dispetto anche della loro volontà. Alfano, nonostante l'immagine dipinta in questi giorni dai suoi detrattori, ha tutte le qualità per emanciparsi, diciamo così, da Berlusconi così come ne ebbe Forlani da Fanfani, di cui molti lo scambiarono all'inizio per una specie di protesi, o di «segretario», per ripetere il termine usato in questi giorni con imprudente ironia, o disprezzo, da Pier Luigi Bersani contro il ministro uscente della Giustizia. Fanfani, diciamo la verità, specie ai lettori più giovani, o meno anziani, era considerato ai suoi tempi un mezzo tiranno, oltre che definito per anagrafe e taglia un mezzo toscano, come oggi Berlusconi dagli avversari per il suo temperamento e le sue misure fisiche. Dicevano e scrivevano di lui che aspirasse a diventare la versione italiana e mignon di De Gaulle, il mitico generale francese assurto democraticamente al potere. Eppure Forlani, diventato in giovanissima età vice segretario della Dc in nome e per conto del suo capocorrente Fanfani, mostrò subito volontà e capacità di muoversi in grande autonomia da lui. Proprio per questa sua vocazione all'autonomia il buon Arnaldo si guadagnò alla fine del 1969 la disponibilità delle altre correnti democristiane alla prima elezione a segretario. E in quella veste dopo due anni gli toccò di gestire la candidatura di Fanfani al Quirinale per la successione a Giuseppe Saragat. Egli fece di tutto, ma proprio di tutto, per assecondarne la riuscita, contrastata invece dalla dissidenza interna di partito, con i soliti «franchi tiratori», e dalla irriducibile opposizione dei comunisti. Quando arrivò il penoso momento di cambiare cavallo, Forlani si assunse le sue responsabilità difendendo in una difficile assemblea congiunta dei deputati e senatori democristiani l'ipotesi della candidatura di Aldo Moro, allora ministro degli Esteri. Ne apprezzò, in particolare, anche le passate esperienze di segretario del partito e di presidente del Consiglio. Ricordo ancora nitidamente il livore con il quale al termine di quella riunione, in un corridoio della Camera, un nerboruto deputato fanfaniano di Taranto diede del «traditore» a Forlani, considerando evidentemente Moro non un concorrente di partito ma un nemico. Alla cui candidatura i parlamentari della Dc a scrutinio segreto preferirono poi quella di Giovanni Leone. «Il cuore con Fanfani, il cervello con Moro», mi era già capitato di scrivere a proposito di Forlani commentandone i primi passi da segretario del partito. Lui si era compiaciuto di quello «smembramento» incontrandomi a Montecitorio. Fanfani invece non gradì e volle spiegarmi personalmente, invitandomi a prendere un caffè nel suo ufficio di presidente del Senato, che per accordarsi con Moro, il suo grande antagonista nella Dc, l'altro «cavallo di razza», come diceva Carlo Donat-Cattin, egli non aveva bisogno di «passare per Forlani». Infatti nel 1973, proprio in quella stanza, vi si accordò direttamente alla vigilia di un congresso i cui delegati erano stati eletti nella prospettiva di confermare Forlani alla segreteria del partito e Giulio Andreotti alla guida del governo della cosiddetta centralità, con i liberali che avevano preso il posto dei socialisti. Con quell'accordo Forlani perse la segreteria, dove tornò proprio Fanfani, e Andreotti Palazzo Chigi, dove tornò con i socialisti Mariano Rumor. Il povero Forlani non fece una piega, come si dice a Roma. E neppure Andreotti. L'uno e l'altro avrebbero poi ripreso i loro posti con le proprie gambe, seguendo cioè propri percorsi, senza o addirittura contro il parere di Fanfani. In particolare, Forlani ridivenne segretario del partito nel 1989, dopo avere contrastato l'elezione congressuale di Benigno Zaccagnini, sostenuta invece dalla sinistra e da Fanfani, e la sua avversione ad un rapporto privilegiato di alleanza con Craxi. Invece Andreotti ridivenne presidente del Consiglio nel 1976, con l'astensione dei comunisti e la formula famosa della «solidarietà nazionale», e nel 1989 per guidare un governo di rinnovata collaborazione con socialisti, socialdemocratici, liberali e repubblicani. Al netto delle differenze che naturalmente esistono fra gli uomini e le circostanze, o condizioni, di quei lontani anni e di questi, Berlusconi ha quindi messo in orbita con la segreteria del Pdl ad Alfano un missile che potrebbe poi assumere una sua autonoma traiettoria, senza tuttavia perdersi nello spazio. Come sicuramente non si perse ai suoi tempi Forlani rimanendo un punto deciso di riferimento degli elettori moderati, sino a quando la politica non fu terremotata dai magistrati con inchieste e manette a senso unico che furono solo le prime di una serie che ancora prosegue. Ma, avendo avuto la fortuna di conoscere sia l'uno che l'altro, pur con tutti gli imprevisti che vanno messi nel conto anche della politica, non credo che Berlusconi commetterà l'errore del risentimento compiuto da Fanfani se e quando non dovesse più trovarsi in sintonia con Alfano. Così come credo che Alfano, al pari di Forlani con Fanfani, continuerà a rispettare e a voler bene a Berlusconi se e quando prenderà decisioni dissentendo da lui.

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