Il giustizialismo condanna la Sinistra
Sarà presentato a Roma mercoledì 6 luglio alle 18.30 alla Sala Umberto, via della Mercede 50, l’ultimo libro di Goffredo Bettini. Si chiama «Oltre i Partiti. Un nuovo campo dei democratici per cambiare l’Italia», edito da Marsilio. Con l’autore ne parleranno la giornalista Barbara Palombelli, il portavoce della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi, il leader di Sel e governatore della Puglia Nichi Vendola e il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti. Modererà il dibattito il giornalista dell’Espresso Marco Damilano. Nel testo Bettini, già coordinatore nazionale del Partito democratico, non fa sconti. Analizza la sconfitta del centrodestra alle ultime elezioni amministrative ma avverte: se prima o poi l’era di Berlusconi finirà, il berlusconismo potrà invece continuare in altre forme. Ma le forze della sinistra hanno un’enorme responsabilità. Per questo Bettini riflette sull’allargamento del campo dei democratici e tenta di rispondere alle domande che lui stesso definisce decisive: «Perché tante difficoltà a unire veramente in un solo pensiero tutti i democratici: laici, socialisti, cattolici, ex comunisti? Cosa non convince nel nucleo vitale del nostro messaggio?». Di seguito pubblichiamo due paragrafi del quarto capitolo, dal titolo «Ridare un fondamento alla politica democratica». GIUSTIZIA Giustizia; parola quanto mai difficile da interpretare nel sistema di relazioni dell'oggi, dove non c'è più una chiara contrapposizione tra classi. La sinistra tradizionale aveva un compito più facile: la dialettica: amico/nemico e oppresso balzava agli occhi con evidenza. Oggi appare tutto confuso. È difficile cogliere dove recuperare uno squilibrio. Per le forze democratiche è un cambio di paradigma. Un tempo c'erano i lavoratori sfruttati; le loro alleanze, il partito organizzato espressione di un campo. Ma oggi? Certo, rimane una parte della società stabilmente emarginata; inoltre, la dipendenza e lo sfruttamento sono più pervasivi, trasversali, eppure hanno confini più mobili e incerti. Per questo si manifesta la crisi delle organizzazioni sindacali e si impone la necessità di rappresentanze politiche inedite. Infatti, si può essere dominante nel lavoro, ma inerme di fronte ai servizi inefficienti, esposto alla perdita dell'occupazione e precipitare nella scala sociale, indifeso di fronte alla mancanza di prospettive dei figli o alla condizione dei tuoi genitori anziani. L'esistenza è poliedrica. L'insicurezza permanente. Tranne un gruppo ristretto di privilegiati, ognuno, un po' ovunque, è vittima e carnefice. Dunque, il sentimento di rifiuto dell'ingiustizia è, a un tempo, più inafferrabile e più esteso. Non si può cogliere con visioni schematiche, ideologiche, conservatrici, che pretendono di attribuire tutte le ragioni a soggetti e luoghi certi. La sinistra deve essere più agile, aperta, elastica nel pensiero e veloce nell'azione. Deve trovarsi ovunque batta l'ansia dei diritti offesi; guardando, senza doppie morali, dove essa stessa concorre a consolidare situazioni di disagio per i cittadini, quando sono utenti senza potere. I giusti diritti dei lavoratori non possono trasformarsi nella difesa corporativa di piccoli e grandi privilegi e nell'indifferenza per le prospettive dei giovani e della qualità di vita delle persone. Troppo spesso i malati non sono tutelati; gli anziani, soli e senza adeguata assistenza; i bambini senza protezione; gli immigrati offesi e maltrattati; le donne non supportate nel loro ruolo di lavoratrici e di madri per le inefficienze della città; gli imprenditori ricattati; i cittadini non considerati da una pubblica amministrazione discrezionale e indifferente o stressati dal traffico e intossicati dallo smog. Potrei continuare. Sono le mille ingiustizie dello sviluppo contemporaneo. Capitoli di un riformismo moderno, radicale e radicato. In questa realtà più mobile e indistinta, per la sinistra c'è il pericolo della dispersione. Contemporaneamente, però, le si offre l'occasione per riproporre in modo più largo la scintilla che le dà fondamento, parlando a una sensibilità e voglia di riscatto che, in qualche modo, si evidenzia in tante esperienze quotidiane. La condizione è, ancora una volta, non avere paura delle parole: giustizia e riequilibrio per gli offesi, ovunque ce ne sia bisogno, senza guardare in faccia nessuno, con l'accortezza che la difesa della propria posizione di privilegio è praticata ovunque, anche nelle proprie fila. PERSONA Guardare in modo reticolare le ingiustizie e cercarle nelle mille pieghe della modernità significa mettere al centro le persone, così sacrificate alle ideologie nella politica del Novecento. L'altra parola da usare è, dunque, persona; con il suo valore, mai trattabile. Anche questa è una rivoluzione, ancora da realizzare in modo completo. È un nervo scoperto della sinistra, in particolare di quella proveniente dall'esperienza comunista; mentre germoglia nel pensiero del «personalismo» cristiano. Il secolo passato introietta l'indifferenza per la vita umana nel «macello» della prima guerra mondiale. Quando nelle trincee d'Europa, tra uomini e topi, i soldati vengono decimati senza sapere il perché e le grandi illusioni del progresso della civiltà precipitano nell'angoscia di una follia generalizzata. Quel caos è il terreno fertile che produce la disperata e, al tempo stesso, grandiosa risposta della politica. Non rassicura più i popoli il placido divenire dello sviluppo economico borghese dei decenni precedenti, ma l'impennata volontaristica delle rivoluzioni di destra e di sinistra; l'ergersi della potenza umana in contrasto con un destino di insensato disordine, a dispetto del quale si tentano ordini nuovi, visionari e impossibili. È in questo tornante che sparisce il valore dei singoli. Dominano le masse, che azzerano le differenze. È la cancellazione dell'individuo sovrastato dal potere della «missione». Stalin, insieme a Brecht, dirà, al culmine dei processi contro i suoi oppositori, che tanto più essi sono innocenti, tanto più vanno eliminati. Sacrificati sull'altare di un'idea giusta e indiscutibile, per soddisfare una volontà superiore e quanto mai oscura. Ai detriti di questa perversione non si può sostituire oggi il dominio della tecnica o dell'organizzazione economica sovraordinato agli esseri umani e ai loro bisogni e ritenuto oggettivo, immodificabile, naturale. La fine delle ideologie si tramuterebbe in nuove forme di sacralità, cui affidare la salvezza di tutti. C'è uno spazio, invece, da riconquistare. Quello della realizzazione, nei limiti del nostro viaggio terreno, di tutte le potenzialità che ognuno ha dentro di sé, che chiedono di essere riconosciute e vissute. Non vedo compito più nobile e alto per la politica. La combinazione/conflitto tra uguaglianza e libertà va giocata nella vita e per la vita delle persone; che è, come abbiamo visto, il vero motore dei grandi slanci, delle grandi idee, delle grandi generosità. Le superfetazioni ideologiche si accompagnano sempre con le gelate burocratiche e la costituzione di apparati, dove si spengono le energie e si annidano le miserie che ci appartengono. È indispensabile una rottura forte, definitiva, inequivocabile, con ogni giustificazione «esterna» alle proprie azioni: quel piegarsi agli imperativi, per dirla con la psicoanalisi, di un grande «Altro», di un occhio severo ed esigente che ti guarda dall'alto e ti impartisce ordini categorici. Una vita umana vale tutte le vite. Non si può fare la contabilità dei danni. È la loro natura che conta nell'organizzazione di una società ed essi sono sempre irreparabili quando feriscono o annientano l'animo delle persone. Da una piccola falla può avere origine un'immensa tragedia. Ecco perché il garantismo deve tornare a essere un valore fondante della sensibilità democratica. Non è semplicemente il rispetto delle regole; ma la condizione per un umanesimo integrale. Non solo la sinistra giustizialista, per esempio, ha politicamente avvantaggiato Berlusconi, ma ha diffuso un messaggio distruttivo parlando attraverso il linguaggio dell'inquisizione. Galera, processi, prove, indagini, condanne, testimoni, teoremi e supposizioni. Prima dei tribunali sono gli show televisivi a rappresentarli. È una specie di universo sicuritario che si diffonde. Può far male a Berlusconi? Abbiamo visto che non è così. Ma fa male sicuramente alle coscienze di chi ascolta e assiste; si legittima un modo di vedere il mondo, punitivo e di destra. Che verrà buono ai nostri avversari per colpire, quando necessario, i poveretti, i deboli e gli indifesi. Già oggi è così. Quando sento con troppa leggerezza considerare inevitabile trascurare certi «dettagli» circa la carcerazione preventiva, la violazione della privacy in assenza di pericoli reali per la vita degli altri, la condizione dei detenuti o le estenuanti attese per le sentenze, mi viene da dire indignato che non esistono danni collaterali: perché nessuno può conoscere il confine oltre il quale la sofferenza è insopportabile e il limite della discrezionalità del potere statale quando esce dalla trasparenza e dal rispetto dell'integrità del corpo del cittadino. Sono indimenticabili le immagini dell'omino Charlot in mezzo ai gendarmi. O di Monsieur Verdoux che, mentre va al patibolo, si domanda come mai uno stato che con la guerra pianifica lo sterminio di milioni di persone, finisca per punire lui che in fondo ne ha assassinate occasionalmente così poche. È un paradosso che solleva un dubbio, un interrogativo sulla certezza e la patente di moralità delle leggi che sono comunque decise dagli esseri umani. E devono, quindi, conservare, degli esseri umani, il senso del limite, la provvisorietà, la prudenza del dubbio. Significa, questo, essere più indulgenti con i delinquenti o i corrotti? Non credo. Significa cercare un avvicinamento a Berlusconi? Al contrario: è il modo per combatterlo meglio, senza perdere la propria anima. Non esiste vittoria più grande per il nostro avversario che costringerci a praticare il suo linguaggio, i suoi metodi, i suoi simboli.