Silvio: "È come con Mediaset"

Un Berlusconi sollevato. Risollevato. Sereno. Quasi crepuscolare. Che si lascia andare al suo ritorno a palazzo Grazioli per pranzo dopo il consiglio nazionale: «Ora so che posso anche lasciare. Il Pdl potrà andare avanti, è in buone mani». Subito ripreso dal coro di fedelissimi: ma non scherziamo. Lui cerca di spiegarsi: «Sono fiero che abbiamo costruito un grande partito e continuerà anche dopo di me». Ma i suoi non vogliono sentire di abbandoni. Il Cavaliere è sereno e razionalmente spiega: «Guardate, sta succedendo con il partito quello che è già accaduto con Mediaset. Anche quando sono sceso in politica in tanti pensavano che le mie aziende sarebbero finite. Poi se ne sono occupati i miei figli. Guardate le tv, Mondadori e persino il Milan. Vanno benissimo. I miei ragazzi hanno continuato con i successi». È la prova che quella di ieri non è stata una nomina tanto per mettere uno a capo del partito. «Non sarà un Bondi due», dice un deputato vicino al premier. È la fine di un'era, un reale passaggio di testimone. Berlusconi resta l'azionista di maggioranza del Pdl, il padre nobile. Alfano diventa l'amministratore delegato, a lui sono delegati quasi tutti i poteri. In sala non tutti avevano capito che cosa stesse accadendo. Berlusconi sale sul palco, fa un discorsetto e annuncia: «Non ho dubbi che Alfano sia la persona giusta. Non ho sentito mai nessuna voce contraria alla decisione di eleggerlo segretario. Alfano non è una persona menzognera» dice il premier. Vuole saltare tutte le «burocrazie interne» - un'elezione che prevede i due terzi dei voti -, e venire subito al dunque: nominare l'attuale ministro della Giustizia per «acclamazione»: «Io da presidente e fondatore del partito vi propongo l'elezione di Alfano con questo applauso», a «suffragio generale» afferma il premier. E si emoziona, resta immobile ad un passo nel tuffarsi in un pianto liberatorio. Vorrebbe, ma resiste. Verdini lo richiama, c'è un notaio che deve certificare prima la modifica dello statuto e poi l'elezione. Solo Silvio sa, nel profondo del suo cuore, che un capitolo è chiuso: si sta staccando dalla sua creatura. In platea c'è la leader degli ultrà Daniela Santanchè seduta a fianco alla regina degli ondivaghi (ma non era andata via dal Pdl?) Michela Biancofiore. In terza fila Alfonso Papa seduto vicino a Manuela Repetti, lady Bondi. Poco più in là Marco Milanese, braccio destro di Tremonti. E Tremonti in prima fila ad assistere tramortito all'ascesa di quel siciliano di Alfano. Tutti assieme i ministri di Liberamente, Gelmini e Frattini, qualche poltroncina e Claudio Scajola si guarda attorno per cercare di capire se ci sono spazi di manovra. Sulle gradinate il trio delle meraviglie Ceccacci-Calabria-Giammanco. Tutto sarà spazzato via nel giro di un paio d'ore. Resterà un solo uomo al comando: Alfano. Di lui Berlusconi non può che parlarne bene: «Mi posso fidare. È bravissimo, intelligentissimo. Ha quarant'anni, gli voglio bene come a un figlio...». E dopo il discorso del neosegretario si sente come uno che s'è tolto un peso: «Avete visto? - dice ai fedelissimi - L'avevo detto che era la scelta migliore, la scelta giusta. E così è stato. Ora si apre una nuova fase, puntiamo sui giovani e su internet». F. d. O.