È finito Mubarak. Il pugno di ferro no
In piazza Tahrir al Cairo, per due giorni, i giovani egiziani sono tornati a gridare «abbasso il regime!». Basta questo per capire che se in Egitto Hosni Mubarak non c'è più il regime è rimasto quello di sempre: una forte casta militare che ha stretto la sua presa sul potere e ha sapientemente scongiurato una successione dinastica alla guida del paese dalla quale non si sentiva abbastanza garantita. Così martedì notte e per tutta la giornata di mercoledì molti dei protagonisti della «rivoluzione» dello scorso gennaio sono tornati in piazza, ma questa volta contro il «feldmaresciallo Tantatawi», il leader del governo militare di transizione. Tutto è cominciato quando l'esercito ha tentato di fermare una folla di manifestati che doveva partecipare ad un evento in memoria delle vittime di piazza Tahrir. La repressione è stata molto violenta, con almeno 75 civili che hanno dovuto essere ricoverati e altri 500 con traumi più leggeri. Ma la reazione, attraverso la rete e il passaparola, è stata immediata e dopo poche ore migliaia di persone sono tornate ad occupare la piazza simbolo della rivoluzione egiziana o di quel che ne resta. Gli scontri si sono protratti per tutta la notte e fino al pomeriggio di ieri. Immancabilmente, un comunicato del Ministero del'Interno ha definito i manifestati «teppisti e nemici della rivoluzione che mirano a gettare il paese nel caos». Lo scontento in realtà covava da mesi: il lento e opaco procedere del governo militare verso una transizione democratica non ha mai smesso di preoccupare i leader della protesta che oggi chiedono l'immediata abolizione delle leggi d'emergenza, il ritorno alla legalità costituzionale e le dimissioni di molti ministri del governo. Sullo sfondo c'è la preoccupazione per le prossime elezioni politiche che, secondo l'agenda fissata dai militari, dovrebbero tenersi a fine settembre. Ma il paese appare assolutamente impreparato a questo appuntamento. Non è stata ancora resa nota la legge elettorale, non si è proceduto alla registrazione dei partiti, non è stata fatta la suddivisione dei collegi e non è partita nessuna iniziativa di formazione per il personale destinato ai seggi. In queste condizioni i partiti di nuova formazione, in particolare quelli laici e riformisti, temono che tutto il vantaggio vada al partito rapidamente messo in piedi dai Fratelli Musulmani, l'unico già insediato sul territorio e in grado di fare propaganda, e che la prospettiva di brogli e intimidazioni sia più che probabile. Non a caso il Freedom and Justice Party è l'unico che si batte per il rispetto della scadenza elettorale. Il caso ha già valicato i confini egiziani: una delegazione del Senato americano, guidata da John McCain e John Kerry, in visita nel paese la scorsa settimana, ha formalmente chiesto a Tantawi di valutare il rinvio delle elezioni e permettere la presenza di osservatori internazionali durante le varie fasi del voto. Sono in molti infatti a guardare alla sorte dell'Egitto in quella che viene chiamata la primavera araba: se il paese più importante e popoloso tra quelli che hanno vissuto una fase rivoluzionaria sarà in grado di aprirsi ad una prospettiva democratica, questo potrebbe dare il passo giusto a molti altri paesi nelle stesse condizioni, dalla Tunisia alla Libia. Ma se al contrario la china che prenderà sarà quella di una tenuta del regime militare, rafforzato sul versante civile dal radicalismo dei Fratelli Musulmani, questo potrebbe imprimere una torsione simile a tutta la regione. Non è consolante in questa prospettiva la dichiarazione del ministro degli Esteri iraniano che ha annunciato la riapertura dell'ambasciata al Cairo, dopo anni di blocco delle relazioni diplomatiche, subito dopo le elezioni di settembre.