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Tormenti Rossi per Bersani

Pier Luigi Bersani e Vasco Rossi in un fotomontaggio

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La notizia l'ha data in esclusiva il Tg1. E come si fa a credere al telegiornale di Augusto Minzolini. Deve esserci per forza dietro qualcosa. Vincenzo Mollica l'ha fatto per favorire Silvio Berlusconi. Non c'è dubbio. Perché Vasco Rossi è uno scomodo. Con quella sua tessera radicale sempre in tasca. Sostenitore di Marco Pannella, che una volta definì «il mio ater ego politico». Uno così è meglio non averlo tra i piedi. Anche perché, alla soglia dei 60 anni, il Blasco è un concorrente pericoloso in un panorama politico popolato da coetanei o quasi che sognano Palazzo Chigi (Antonio Di Pietro è nato nel 1950, Pier Ferdinando Casini nel '55, Nichi Vendola nel '58, Gianfranco Fini nel '52, stesso anno del «Rossi nazionale»). Così quelle «dimissioni» da rockstar pronunciate alla fine dello speciale Tg1 andato in onda domenica sera sembrano tanto una trappola. Quelle frasi - «Continuerò a scrivere canzoni, magari anche a fare concerti, non è che mi ritiro. Ma a 60 anni uno non può più continuare a fare la rockstar. Questa è la mia ultima tournée» - sono un evidente tentativo di mettere in difficoltà l'opposizione. Di privarla di una delle sue «armi». E infatti Pier Luigi Bersani non ci sta. Il segretario del Pd non ha dubbi. «Vasco - dice rispondendo ad una domanda durante la conferenza stampa di presentazione della rivista online Tam Tàm democratico - ha scritto una canzone che non vi canto per rispetto. Dice "ci credi, ci credi tu" (Ci credi dall'album Gli Spari Sopra ndr). Ecco io non ci credo che smetta. Ci credo come che si faccia il governo di emergenza lanciato da Pier Ferdinando Casini». Ora chissà se il leader Udc, che essendo nato a Bologna è geograficamente più vicino al Blasco rispetto al piacentino Pier Luigi, avrà gradito la citazione. Di certo ha compreso il travaglio. Perché il segretario Democratico, pur accennando un sorriso, quelle parole le ha pronunciate con il dolore che solo i fan, quelli veri, possono comprendere. In fondo cosa sarebbe il Pd bersaniano senza Vasco? Quasi due anni di reggenza segnati passo passo dal testo di Un senso. Prima, durante le primarie, alla ricerca di «un senso a questa storia». Oggi, dopo le vittorie alle amministrative e i risultati del referendum, a gridare «senti che bel vento». Anche l'apparizione del leader democratico a Sanremo 2010, in fondo, ricordava quella del rocker di Zocca: stralunata e quasi fuoriluogo. E poco importa che tutti lo prendessero in giro ricordando che per il signor Rossi quella storia «un senso non ce l'ha». Poco importa che Walter Veltroni, che aveva deciso da segretario di farsi ispirare dalla lirica di Jovanotti, si permettesse l'ardire di dargli lezioni di vaschismo: «Io preferisco il Vasco Rossi di Sally». Bersani ha tenuto la barra dritta. Certo, dopo i ballottaggi di Milano e Napoli, si è lasciato tentare da Cambierà di Neffa (ma una scappatella si perdona). Certo, davanti alla decisione del Blasco di votare «no» al referendum sul nucleare, non ha potuto far finta di niente ammettendo non senza pena: «Sbaglia». Ma oggi che il momento si fa stringente, Bersani è lì. Fedele alla linea. Magari con un sogno nel cuore: poter emulare il Blasco e cantare in faccia ai Vendola e ai Di Pietro, lui che 60 anni li compirà a settembre, «Eh già, sono ancora qua».

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