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Il Palazzo di cristallo

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Dostoevskij non visse abbastanza per aver notizia della nascita del telefono. Nel 1881, quando egli morì, quel nuovo aggeggio, infatti, era ancora soltanto un abbozzo nella mente dei suoi diversi “inventori”. Ma se avesse saputo che proprio in quegli anni (l'ultimo decennio della sua vita) esso era stato ideato, il suo genio di profeta di tutte le chimere e le magagne delle imminenti società di massa gli avrebbe imposto di prevedere che fra gli effetti di quella nuova invenzione ci sarebbe stato anche l'uso, e soprattutto l'abuso, delle intercettazioni. A questa previsione lo avrebbe portato, inevitabilmente, la stessa lungimiranza con cui aveva colto subito, nelle diverse utopie del suo tempo, quella brama di una trasparenza e un controllo assoluti, da imporsi in ogni ambito dell'esistenza, che di lì a pochi decenni sarebbe sfociata nella creazione dei grandi regimi totalitari del Novecento. Molte sono nella sua opera le pagine in cui egli descrisse, e spesso derise, questo funesto miraggio. Ma quelle dalle quali oggi si può più facilmente dedurre che egli avrebbe visto una comicissima conferma delle sue strepitose previsioni sono quelle in cui, nei “Ricordi dal sottosuolo”, derise l'assurdo sogno di eliminare dall'esistenza ogni traccia di libertà, mistero e segretezza mediante la sua reclusione in un grande “palazzo di cristallo”. Questo miraggio rimanda ovviamente al mito comunista dell'Uomo Nuovo. Dostoevskij non usa questa espressione ma quando parla sogghignando del sogno di rimodellare e rieducare la natura umana estirpandone tutti quei tratti che sembrano incompatibili col culto di una mitica Ragione è evidente che si riferisce alla stessa grottesca favoletta con cui Marx, in quegli stessi anni, annunciò l'avvento dell'Uomo Nuovo descrivendolo come un irreprensibile piccolo borghese che trascorre le sue virtuose giornate dividendosi tra la pesca, il passeggio e la lettura, non senza concedersi, magari qualche onesta scorribanda nei campi dell'arte, della poesia e della speculazione, ma senza cedere mai, va da sé, a qualche vizio, passione o fisima ingiustificabile alla luce della morale corrente. Ma se Marx, naturalmente, non arrivò a cogliere la vera radice di quel miraggio, Dostoevskij, invece, la individuò perfettamente nell'idea che l'agire umano sia riconducibile a non si sa bene quali “leggi di natura” che, una volta scoperte, non potranno non imporci di escludere che l'uomo debba continuare e rispondere delle proprie azioni. Da questa ridicola idea consegue infatti che un giorno «tutte le azioni umane saranno matematicamente calcolate secondo quelle leggi, faranno una sorta di tabelle di logaritmi, fino a 108.000, e verranno inserite nelle effemeridi; oppure, meglio ancora, ci saranno pubblicazioni benemerite, sul genere degli attuali lessici enciclopedici, in cui ogni cosa verrà calcolata e stabilita tanto esattamente che al mondo non si daranno più né azioni né avventure». Allora, infatti, «si stabiliranno nuove relazioni economiche, anch'esse belle e pronte e calcolate con matematica esattezza, sicché spariranno d'incanto tutti i possibili problemi, appunto perché ci saranno in serbo tutte le soluzioni possibili. E allora costruiremo un palazzo di cristallo», dove è ovviamente escluso che possa essere ammesso il dolore: «la sofferenza è infatti dubbio e negazione, e che cosa sarebbe un palazzo di cristallo in cui ci si potesse abbandonare al dubbio?». I battaglioni di procuratori d'assalto oggi impegnati da noi nella grande impresa delle intercettazioni date in pasto all'opinione pubblica, non sanno probabilmente di essere un prodotto del micidiale miraggio che Dostoevskij indicò con la metafora del “palazzo di cristallo”. E ancora meno lo sanno, verosimilmente, gli armenti di lettori avidi di rivelazioni ottenute con questo abominevole sistema inquisitivo. È tuttavia certo, che sia lo zelo dei primi sia la curiosità dei secondi rimandano a un medesimo delirio: quello di chi vorrebbe ridurre l'intera esistenza umana a un semplice oggetto di inquisizione perpetua. La parola inquisizione prova fra l'altro che il sogno del palazzo di cristallo si confonde con quell'agghiacciante progetto di un'esistenza rigorosamente programmata che Dostoevskij affidò, nei “Fratelli Karamazof”, alla voce del Grande Inquisitore. Ecco il passo principale di quel celebre capitolo: «Noi daremo loro l'umile, quieta felicità degli esseri deboli. Dimostreremo loro che sono deboli, che sono soltanto dei poveri bambini, ma che la felicità dei bambini è più dolce di ogni altra cosa. Diventeranno timidi, e nella loro paura guarderanno a noi, si stringeranno a noi come i pulcini alla chioccia. Ci ammireranno e ci temeranno e saranno orgogliosi di noi, così forti e intelligenti da aver saputo pacificare un gregge tanto turbolento e innumerevole. Avranno una gran paura della nostra collera, la loro intelligenza perderà ogni audacia, i loro occhi diventeranno facili al pianto come quelli delle donne e dei bambini. Ma con altrettanta facilità a un nostro cenno passeranno dalle lagrime al riso e all'allegria, alla limpida gioia e alle liete canzoncine infantili. Li faremo lavorare, sì, ma nelle ore libere dalla fatica organizzeremo la loro vita come un gioco infantile, con canti in coro e danze innocenti. Oh, concederemo loro anche il peccato perché sono deboli e impotenti, e così ci ameranno come bambini, perché permetteremo loro di peccare». Una sola cosa Dostoevskij non previde: che un bel giorno, da qualche parte, la funzione del Grande Inquisitore, anziché da qualche principe della Chiesa o del Partito, sarebbe stata svolta da branchi di mozzorecchi.  

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