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Il Pdl non sta bene. La Lega sta peggio

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Due fatti di questi ultimi giorni confermano la crisi della Lega. Il primo è la dichiarazione di Roberto Castelli sulla «arretratezza culturale» dei romani che non vogliono pagare i pedaggi sul GRA di Roma perché convinti che "lo Stato debba pensare a tutto". È una battuta che si commenta da sola perché, recuperando stile e linguaggio biechi del qualunquismo leghista della prima ora, dimostra che dalle parti del Carroccio si ritiene, ancora, che l'offesa gratuita - perché di tale si tratta - paghi in termini di consenso da parte di un popolo, quello leghista, abituato a ragionare di pancia, sulla base di slogan, e non di testa. E non basta certo, a mutar la sostanza delle cose, la tardiva precisazione o (se si preferisce) ritrattazione di Castelli secondo la quale egli non intendeva affatto offendere i cittadini romani ma contestare piuttosto la "politica romana relativa alle infrastrutture". Sarà pure così, anche se, mettendosi sullo stesso piano, si potrebbe rispondere a Castelli che non è da ritenersi "culturalmente avanzato" chi, al Nord, non rispetta il regime europeo delle quote di produzione del latte nella convinzione che le multe per lo sforamento debbano essere pagate dallo Stato. Ma sarebbe troppo facile polemica. È più importante, invece, segnalare un'altra cosa, dal punto di vista politico più significativa. Il disprezzo che trapela dalle dichiarazioni di Castelli - un disprezzo, lo rileviamo per incidens, tanto simile a quello usato dai tartufi dell'intellighentsia di sinistra nei confronti di chi non la pensa come loro - riporta l'orologio della politica indietro nel tempo. Lo riporta all'epoca della discesa in campo di questo movimento. Allora, la Lega era soltanto espressione di una rabbia elementare e di una antipolitica istintiva che si nutrivano di invettive, demagogiche e irrazionali, nei confronti di "Roma ladrona" e si crogiolavano in luoghi comuni sulla presunta "indolenza antropologica" delle popolazioni meridionali contrapposta alla altrettanto presunta "laboriosità" di quelle settentrionali. Era un movimento protestatario, di lotta e di opposizione, spesso folcloristico, che si dilettava a dileggiare le istituzioni. E che non sembrava avere nessuna realistica prospettiva di trasformarsi in "partito di governo". Cosa che è, invece, avvenuta quando, da quel di Arcore, scese un cavaliere di nome Berlusconi che riuscì a convogliare tutte le istanze antipolitiche del paese e dare loro valenza e sostanza politica. Da allora molte cose sono cambiate. E molta acqua è passata sotto i ponti. La Lega è divenuta forza di governo e, in qualche campo (penso, per esempio, all'ordine pubblico) ha dimostrato di saper bene operare nel quadro di una politica nazionale. I leghisti, insomma, giunti a Roma, hanno dato l'impressione di aver cambiato pelle. Poi sono venute le batoste elettorali, e la Lega sembra aver perduto la bussola e, colpita dal panico per il distacco fra la sua classe politica e la sua base elettorale e territoriale, essere tornata ai comportamenti e alle provocazioni del passato. Con la ripresa di slogan minacciosi su possibili secessioni, con la richiesta risibile di spostare alcuni ministeri al nord, con la ripresa del gioco al rialzo di richieste demagogiche (e spesso di sapore corporativo) come quella di dare bonus di punteggio ai candidati del nord in concorsi pubblici, con, infine, il recupero dell'idea di ataviche e insuperabili differenze tra nord e sud in termini di laboriosità e, pure, di onestà. Le parole di Castelli, sia pure inconsapevolmente, esprimono tutto questo. E sono la spia della crisi della Lega. E, con questo, veniamo al secondo fatto del quale si faceva cenno all'inizio e che conferma lo stato di crisi del movimento. Questo fatto è la lotta di potere che si è scatenata all'interno della Lega e che è culminata nella riconferma (a termine) del capogruppo leghista a Montecitorio dopo la sua messa in discussione da parte di un consistente numero di deputati. È un episodio tutt'altro che marginale. È un episodio che dimostra la trasformazione della Lega da movimento politico atipico, e per certi versi originale, in un partito politico classico articolato ormai in correnti che, come negli altri partiti politici, lottano fra di loro per la conquista del potere o di segmenti di potere interno. Il modello di partito a base carismatica - fondato sul rapporto diretto fra il leader e il suo popolo - ha lasciato il posto a un modello di partito, per così dire, classico nel quale le correnti, organizzate o non organizzate, costituiscono il tramite obbligato per la politica. In altre parole la Lega ha subito una metamorfosi. Come nel celebre racconto di Kafka nel quale il protagonista, il commesso viaggiatore Gregor Samsa, si risvegliata trasformato in un enorme scarafaggio, così la Lega si è risvegliata trasformata in un partito classico. In un partito tipico della vecchia politica, quella politica parlamentare che essa, alle origini, ma soprattutto i suoi elettori contestavano: una politica fatta di accordi sottobanco, di ricatti e ricattucci, di ricerca di posizioni di governo e sottogoverno, di nepotismo, oltre che di frazionismo interno. Questa è la verità. E questo è il motivo profondo della sua crisi. Che non è soltanto elettorale, ma di perdita di identità. Il passaggio dalla fase della gioventù ribellistica e scapigliata a quello della posata maturità politica non è avvenuto. E, nel centrodestra, se il Pdl si trova nella necessità di dover recuperare i suoi valori originari, quelli del 1994, la Lega non sta affatto meglio. Anzi. Sta peggio.  

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