Non c'è alternativa e Bersani lo sa bene
Le opposizioni naturalmente non hanno gradito, ma il presidente del Consiglio non aveva torto ieri al Senato quando, affrontando la cosiddetta verifica, ha osservato che non vi sono oggi alternative alla sua maggioranza. Per quanto essa sia malmessa, a dispetto della rappresentazione un po' troppo ottimistica che Silvio Berlusconi ha voluto farne per comprensibile dovere di ufficio, specie quando ha definito «surreale» e «grottesco» il racconto che ne fanno i giornali. È proprio la mancanza di alternative, compresa l'ipotesi di un ricorso anticipato alle urne solo a parole invocato o minacciato dagli avversari del Cavaliere, a rendere paradossale la situazione. C'è qualcuno che sta politicamente peggio di Berlusconi, anche se a prima vista appare in eccellenti condizioni e sale un giorno sì e l'altro pure su palchi e palchetti per cantare ancora vittoria dopo le elezioni amministrative di maggio e i referendum di metà giugno. Si chiama Pier Luigi Bersani. Sì, è proprio lui, il segretario del Pd. Che gioca con le metafore dei giaguari da smacchiare e delle bambole da pettinare. E che, deluso dal mancato annuncio della crisi sui prati di Pontida, si è messo a contare le settimane e i mesi che mancano al raduno autunnale della Lega a Venezia, sempre scommettendo sulla rottura fra Umberto Bossi e il Cavaliere. Bersani finge di non sapere che a costruire un'alternativa seria e credibile di governo non bastano le coalizioni improvvisate per eleggere Luigi de Magistris sindaco di Napoli e Giuliano Pisapia sindaco di Milano: due candidati peraltro di risulta per il suo partito, specie il primo, contrastato con un altro dal Pd nel primo turno. Né bastano gli umori messi insieme nei referendum sul nucleare, sull'acqua e sul legittimo e già moribondo impedimento processuale del presidente del Consiglio e dei ministri: referendum ai quali Bersani per primo non credeva quando Antonio Di Pietro ed altri li promossero, l'anno scorso. E sui quali egli si è buttato solo all'ultimo momento, quando la paura di Fukuscima ha spinto la maggior parte degli elettori alle urne. E vi si è buttato anche a costo di smentire, per esempio sulla gestione dell'acqua, le liberalizzazioni sostenute quando egli era al governo. La sinistra uscita dai referendum è ancora meno riformista e liberalizzatrice di prima, e ancora più a rimorchio di Nichi Vendola. Che adesso peraltro non è più il solo, o il più insidioso concorrente del segretario del Pd a Palazzo Chigi nel prossimo giro elettorale. Ora a tagliare l'erba sotto i piedi a Bersani, sempre in un'ottica di massimalismo programmatico, c'è anche Di Pietro. Che furbescamente, con le scarpe grosse del contadino e il cervello affinato nelle pratiche giudiziarie e politiche, sponsorizza formalmente il ritorno del suo ex inquisito ed ex presidente del Consiglio Romano Prodi. Ma questi è tentato da ben altro: non da un ritorno alla guida del solito governo immobilizzato dai contrasti interni, come quelli da lui formati nel 1996 e nel 2006, entrambi finiti di morte prematura, ma dalla successione a Giorgio Napolitano al Quirinale. Meglio di Bersani non sono certamente messi i signori del terzo polo. Essi sono usciti dalle urne amministrative e referendarie tanto più carichi di ambizioni, e di risentimenti verso gli ex alleati di centrodestra, quanto più scarsi di voti e di capacità di condizionare una sinistra da loro ancora più lontana di prima sui contenuti di un'azione di governo al passo con l'Europa. E con le attese degli italiani.