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La riforma del fisco va fatta con il contributo

Il ministro dell'Economia Giulio Tremonti

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I nostri politici e la nostra classe dirigente guardano i telegiornali? Se li guardano, si saranno accorti che Atene è ad un passo non solo dal default, ma anche dalla rivolta popolare. La gente accampata in piazza Syntagma non è precisamente lì in attesa che arrivino le nuove misure di austerity concordate con l'Unione europea e il Fondo monetario: è lì per l'esatto contrario, con la forte tentazione di dare l'assalto al Parlamento e al governo. E lasciamo stare di chi sia la colpa, se dei greci che hanno campato sui sussidi dello Stato che a sua volta truccava i bilanci, o di una leadership europea ormai ridotta a zero credibilità, formalmente custode dell'ortodossia dei bilanci pubblici e di fatto di quelli delle banche private, in balìa della speculazione come si è visto con la nuova ondata di rating ed outlook decisa da Moody's, e che ha coinvolto anche l'Italia e le nostre aziende pubbliche. Questa è la situazione, e in questa situazione si assiste da noi a dibattiti surreali. La sinistra uscita pimpante da amministrative e referendum ritiene di poter governare a base di piste ciclabili e green economy. Peccato che Napoli, dove De Magistris doveva far piazza pulita in cinque giorni, sia coperta di rifiuti peggio di prima. La maggioranza oltre a discutere di spostamenti di ministeri – questione di cui si sentiva la mancanza – promette il taglio delle tasse «assieme al rigore». Su tutto e su tutti si staglia l'inchiesta P4 by Woodcock. Entro la settimana il Cavaliere dovrà risolvere a Bruxelles la grana della Bce: abbiamo un uomo di troppo. Con, e se, l'arrivo di Mario Draghi all'Eurotower di Francoforte, gli obblighi europei si faranno più stringenti, se non altro perché avremo spianata la moschetteria franco-tedesca. Eppure ciò di cui si discute è una riforma fiscale da realizzare entro l'estate, in contemporanea con una manovra da 40-45 miliardi spalmabile da qui al 2014. Dopodiché ne occorreranno altre. L'avvertimento di Moody's può apparire strumentale, ma i suoi effetti sulla borsa e sui titoli pubblici si sono visti. Figuriamoci se accade qualcosa di peggio ad Atene. Dunque ha ragione Tremonti nel dire che non si possono ridurre le tasse in deficit: non reggeremmo neppure un minuto. Dunque? L'alternativa non è tra rigore meno tasse, o fra Tremonti e Berlusconi. La via più corretta per uscire da un labirinto nel quale altrimenti il centrodestra andrà ad infilarsi, sbattendo definitivamente la testa, è quale riforma delle tasse può permettersi un paese come l'Italia. È evidente che con una pressione che nel 2011 viaggia verso il 45,9 per cento, ai massimi dell'eurozona, una crescita che è invece al quartultimo posto, e un'imposizione sulle imprese del 58 per cento, seconda solo alla Francia e quindici punti più della Germania (e 18 dell'Inghilterra), una riforma va fatta. Anzi, "la" riforma. Ma è altrettanto evidente che non basterà spostare un po' di Iva in cambio di un po' di Irpef, perché così avremo solo del window dressing, una spolveratina elettorale che lascerà più o meno le cose come stanno. E quindi? Si è sempre detto che l'Italia non ha materie prime, ma in realtà una ce l'ha, e di questi tempi tra le più pregiate. Parliamo del nostro risparmio, la famosa ricchezza privata delle famiglie: si tratta di 8.600 miliardi al netto di prestiti e mutui. Non desideriamo che nessuno vi allunghi le mani, e su queste colonne ci siamo sempre battuti contro le tentazioni patrimonialiste della sinistra. Non abbiamo certo cambiato idea, perché le patrimoniali ideate in passato da Prodi e Visco, ed oggi rilanciate da Amato, Vendola e dalla Cgil, hanno avuto e hanno sempre un obiettivo: tassare per spendere. Profondamente diverso è utilizzare il giacimento della ricchezza per ridurre il carico fiscale: cioè per noi stessi. E l'idea più sensata continua a sembrarci quella di Luigi Abete, il presidente della Bnl e dell'Assonime, l'associazione delle aziende quotate in borsa. Abete l'ha sottoposta a gennaio alla Confindustria e ieri l'ha rilanciata così: «Semplificare il sistema e renderlo più neutrale tra le diverse fonti di reddito: per questa ragione proponevo di applicare la stessa aliquota del 20 per cento al reddito d'impresa, ai frutti delle attività patrimoniali, nonché al primo scaglione del reddito personale. Proponevo, infine, di finanziare la riduzione delle imposte sulle imprese attraverso l'imposta sulla ricchezza delle persone fisiche. Questa imposta rappresenta una componente essenziale di trasparenza ed equità, in un sistema nel quale i percettori di redditi superiori a 100.000 euro annui sono circa 390.000, meno dell'1 per cento dei contribuenti, mentre la ricchezza netta delle famiglie ammonta a 8.600 miliardi, oltre otto volte il reddito disponibile. Per sottolineare la motivazione sostanziale di una imposta annuale minima sulla ricchezza e superare gli aspetti psicologici che alcuni commentatori continuano a enfatizzare abbiamo proposto di denominare tale imposta con l'acronimo Ctc, che sta per Contributo per la Trasparenza e la Crescita: i due obiettivi essenziali della riforma del fisco nell'attuale fase storica del nostro Paese. Non ho incluso l'evasione tra le fonti di nuove entrate, non solo perché serietà impone di prendere in considerazione solo entrate certe e affidabili, ma anche perché i benefici della lotta all'evasione dovrebbero essere automaticamente destinati a ridurre i carichi di coloro che le imposte le pagano». Sigle a parte – non dimentichiamo l'eurotassa che si chiamava Contributo straordinario per l'Europa – a noi sembra una base seria su cui lavorare. Soprattutto, l'unica possibile per una riforma vera.

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