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Bossi tramonta a Pontida

Umberto Bossi durante il suo intervento dal palco di Pontida per il raduno della Lega

Prove di successione, Maroni avanza

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L'ultimatum a Berlusconi è servito. Il leader della Lega, Umberto Bossi, non ci ha girato attorno. Gli è bastato salire sul palco costruito sul «sacro prato» di Pontida per mettere le cose in chiaro con l'ormai «ex» amico: «Caro Silvio, non è detto che staremo con te alle prossime elezioni. La tua premiership può finire». Per ora, dunque, nessuna rottura dato che «non possiamo prenderci la responsabilità di mandare in malora il Paese», ma all'alleato il leader del Carroccio non risparmia critiche. È la fine di un sodalizio. È la fine di quello che poco dopo il Senatùr definirà «un ciclo storico». Eppure in quel ciclo storico c'è dentro, a pieno titolo, anche lui. E ieri, proprio mentre tentava di galvanizzare gli 80mila fedelissimi arrivati nella cittadina bergamasca, l'impressione è stata questa: l'Umberto è ormai costretto a cavalcare vecchi cavalli di battaglia per convincere i suoi che la Lega può tornare forte. Ma gli anni del «celodurismo» rimangono, ormai, solamente un ricordo scritto nei libri in vendita in qualche gazebo di nostalgici. L'Umberto ci tenta. La sua gente lo acclama, lo incita, ma il «vecchio leone» della Padania ormai non ce la fa. Dopo dieci minuti di intervento è costretto a cedere il microfono al ministro Calderoli. Deve prendere fiato. Poi ancora qualche sfogo. «Fratelli padani ora tornerà prepotente l'azione per l'indipendenza e la libertà della Padanaia». Indipendenza? Ormai i leghisti non ci credono più. Loro vogliono altro. Vogliono la secessione. La chiedono a gran voce interrompendo il suo discorso ben otto volte e costringendolo, ad un certo punto, a sventolare bandiera bianca: «Se volete la secessione ci si prepari». Eppure nemmeno lui credeva di dover arrivare a tanto. Neppure negli anni in cui la Lega era solo di lotta e la secessione era nel programma, i militanti avevano scandito così tante volte lo slogan durante un comizio di Bossi. Era lui, semmai, che con il pugno chiuso incitava i suoi a urlarlo come allo stadio. Questa volta è stato preso in contropiede. E forse non sarà l'ultima. Anche nella Lega c'è voglia di cambiamento. La base ha voglia di qualcosa di nuovo. Le file ai gazebo per sottoscrivere la richiesta di Calderoli di trasferire alcuni ministeri al Nord non mancano ma questo è solo un atto dovuto. Quello che la base chiede ai vertici è di cambiare rotta e, in assenza di proposte veramente innovative, arriva all'estremismo. E intanto Bossi spera di accontentare la sua gente bacchettando il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, considerato troppo poco «coraggioso» in un periodo di crisi. «Caro Giulio, se vuoi avere ancora i voti della Lega in Parlamento non toccare più gli artigiani e le piccole imprese, altrimenti metti in ginocchio il Nord». E poi l'affondo: «Tremonti ha proposto delle cose vergognose che neanche la sinistra aveva fatto. Già da martedì voteremo un decreto che mette i paletti all'azione di Equitalia». Parole che però non sembrano convincere la «base» che, quando capisce che da Pontida non arriverà nessuna crisi di governo, protesta fischiando il «Capo». E così, meglio ripartire con le minacce agli alleati. È ora di proclamare il tanto sbandierato ultimatum che si articola in una serie di «paletti» e scadenze che il governo dovrà rispettare «nei prossimi 180 giorni». Innanzitutto la riforma fiscale: «Qualcosa per abbassare le tasse si deve fare», intervenendo sugli sprechi, dimezzando il numero dei parlamentari, «tagliando» le missioni militari a cominciare dalla Libia. Poi «va riscritto il Patto di stabilità» per i comuni virtuosi «che hanno miliardi bloccati». Un'altra richiesta è quella del decentramento dei ministeri, appoggiata con la raccolta di firme e «che Berlusconi stava per firmare ma poi si è c...to addosso», alla villa Reale di Monza possono trovare posto le sedi della semplificazione di Calderoli, delle Riforme dello stesso Bossi, dell'Economia di Tremonti e perché no, anche l'Interno di Maroni. E anche l'Industria è inutile «che resti a Roma visto che le aziende sono al Nord e nella Capitale c'é solo burocrazia».

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