La saga padana
Comunque si voglia ricostruire la storia della Lega, e del suo leader, i conti non tornano con i «cicli di 15 anni» elencati ieri al raduno di Pontida dallo stesso Umberto Bossi. Che ha voluto ricordare, anche qui con grande approssimazione, nascita e morte della destra storica italiana, della sinistra altrettanto storica, dell'era giolittiana e del fascismo, durato in realtà quasi 21 anni, senza tener conto dell'ancora più tragica coda di Salò. Mi fermo al fascismo perché lo stesso Bossi non è andato oltre nella sua fugace lezione di storia, rendendosi evidentemente conto del fatto che avrebbe dovuto moltiplicare per più di tre il ciclo della Democrazia Cristiana, rimasta al potere dall'immediato secondo dopoguerra alla fine del 1993, quando un affrettato cambiamento di nome voluto dall'ultimo segretario, Mino Martinazzoli, le risparmiò almeno nominalmente l'umiliazione della sconfitta nelle elezioni politiche del 1994. Che furono quelle in groppa alle quali Silvio Berlusconi portò per la prima volta al governo, insieme con la sua Forza Italia e l'ancora Movimento Sociale di Gianfranco Fini, proprio la Lega di Bossi. Sono quindi 17 anni, 2 più di 15, che il partito bossiano si alterna tra governo e opposizione in quello che si potrebbe considerare il suo ciclo. E di cui si è avvertito ieri sul prato di Pontida più di un segno d'esaurimento, a dispetto di un certo celodurismo ostentato dalla folla ogni volta che lui ha cercato di stimolarla con quella sua voce penosamente strozzata da una drammatica miscela di malattia, stanchezza ed età. Che ne consiglierebbe, francamente, il ritiro. Lo scrivo, credetemi, senza malanimo, anzi con una vena anche di simpatia e di solidarietà umana, a dispetto di quei manifesti offensivi di cui il suo partito mi gratificò sui muri di Milano a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta. Quando alla direzione de Il Giorno non mi capacitavo dell'interesse e dell'indulgenza che suscitava in quella città e in quella regione dalle grandissime tradizioni d'accoglienza l'antimeridionalismo becero della Lega. Che mi feriva da italiano, prima ancora che da meridionale. E grande fu la mia delusione – ve lo confesso – quando sentii, verso «la novità» costituita dal movimento leghista, parole di comprensione da due carissimi amici che poi ne avrebbero provato sulla loro pelle politica la durezza. Uno era Bettino Craxi, spintosi di lì a poco a Pontida ad aprire al federalismo con un discorso che credeva capace di aprire un confronto costruttivo con la Lega. Che era diventata nelle elezioni regionali del 1990 il secondo partito della Lombardia, dopo la Dc. Con il suo 18,9 per cento di voti Bossi aveva superato il Pci, fresco della polvere del muro di Berlino, ed anche il Psi craxiano. Di Bettino, a Bossi in cuor suo piacevano, in verità, molte cose: sul piano politico l'insofferenza per il Pci ed anche per la Dc, e i progetti di grande riforma costituzionale. Che erano particolarmente apprezzate da un presidenzialista di vecchio stampo e fortissimo temperamento appena affacciatosi proprio alla porta della Lega: il professore Gianfranco Miglio. Che molti anni prima era stato, anche per la sua docenza all'Università Cattolica, fra i consiglieri ascoltati ogni tanto dall'allora segretario della Dc Amintore Fanfani. Ma al successore, Aldo Moro, bastò nel 1960 un solo colloquio per rimanerne quasi scioccato e decidere di non sentirlo più, trovando addirittura «sismiche», come confidò ad un amico, le sue sollecitazioni a riformare radicalmente una Costituzione che era in vigore da poco più di dieci anni soltanto. Sul piano personale, di Bettino piacevano in fondo a Bossi una certa ruvidità, la franchezza nell'esprimere le sue opinioni, specie i dinieghi, e la rapidità delle decisioni. Come quella, da lui condivisa e rilanciata con tanto di dichiarazioni, di incitare gli elettori a preferire il mare al referendum del 1991 promosso da Mario Segni contro le preferenze plurime, e a favore invece della preferenza unica. Ne seguì una sconfitta rimasta tutta sulle spalle di Craxi, scivolando su quelle di Bossi. Che poi non spese una parola, dico una, per difenderlo prima dagli attacchi e dopo dal dileggio. A quel dileggio, anzi, il leader del Carroccio finì per unirsi per convenienza politica, dato che Craxi in ogni modo faceva parte, nonostante l'anagrafe, di quel ciclo politico e di potere che la Lega si era proposta di liquidare. E di liquidare anche con metodi spicci, come si vide con quel cappio sventolato dal gruppo leghista nell'aula della Camera contro il leader socialista e tutti gli altri inquisiti o imputati di «Mani pulite», la famosa indagine giudiziaria sul finanziamento illegale dei partiti e sulla corruzione che spesso, ma non sempre, l'accompagnava. Un'inchiesta, peraltro, che avrebbe poi investito anche la Lega nella persona del suo segretario amministrativo, frettolosamente liquidato da Bossi con battute e battutacce delle sue. Ma il contributo dei leghisti al successo mediatico e politico di quell'uragano giudiziario rimase notevole, e pubblicamente apprezzato dall'allora capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli. L'altro amico che mi sorprese più di vent'anni fa, ormai, per il suo interesse non dico compiaciuto ma indulgente verso la «novità» leghista fu Berlusconi. Che cercò di convincermi a non impressionarmi più di tanto per gli slogan di Bossi e dei suoi contro i meridionali, dicendomi che era più folclore che sostanza. Coerente con questa convinzione, alla fine del 1993, quando ruppe gli indugi e decise di scendere in politica con la sua Forza Italia per offrire un tetto elettorale ai moderati che si erano persi per strada la Dc, il Psi e gli altri vecchi partiti di governo travolti dalle manette e dai processi, Berlusconi ritenne perciò naturale pensare ai leghisti come alleati. E limitò l'intesa al Nord un po' perché era solo lì che la Lega raccoglieva voti, e tanti, un po' per aggirare le resistenze della destra finiana, che verso il Carroccio nutriva diffidenza o ostilità largamente ricambiate. L'esordio dell'alleanza, dopo la vittoria elettorale del 1994, non fu felice. Bossi, che nel frattempo aveva già cominciato a stancarsi di Miglio, si mise rapidamente di traverso sulla strada del primo governo Berlusconi, cedendo per esempio alle minacciose proteste dei magistrati milanesi della Procura e obbligando il presidente del Consiglio a rinunciare alla ratifica parlamentare di un decreto legge contro l'abuso delle manette. Che pure portava anche la firma del già allora ministro dell'Interno Roberto Maroni ed era stato controfirmato da un presidente della Repubblica non sospettabile di antipatie per i magistrati. Era quello stesso Oscar Luigi Scalfaro che l'anno prima aveva ceduto ad altre analoghe proteste della Procura milanese rifiutando all'improvviso il decreto legge varato dal governo di Giuliano Amato, e concordato quasi parola per parola con il Quirinale, per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli. Seguirono a quell'incidente del decreto anti-manette l'estate calda di Bossi in canottiera in Sardegna, le contestazioni di una legge in cantiere per ridurre i costi delle pensioni, la rottura in Parlamento e infine la crisi: tutto preparato tra ammiccanti udienze del leader leghista al Quirinale, corteggiamenti da parte degli allora segretari del Ppi-ex Dc Rocco Buttiglione e Massimo D'Alema, con spuntini a base di sardine e prosciutto, avvisaglie di clamorose iniziative giudiziarie contro il Cavaliere e notifica di un invito a comparire per corruzione mentre il presidente del Consiglio era impegnato, a Napoli, in una convenzione internazionale sulla lotta alla criminalità organizzata. Ce n'era abbastanza per chiudere con Bossi e non prendere più con lui neppure un caffè, come gridava alla Camera e nelle piazze un indignatissimo Fini. Per giunta, la Lega dopo qualche mese, fra le proteste e l'abbandono dell'allora presidente della Camera Irene Pivetti, imboccò la strada della secessione, sino a proclamare il 15 settembre 1996 a Venezia, sulla Riva dei sette martiri, dopo il tradizionale «pellegrinaggio» lungo il Po, la nascita della Repubblica «federale e sovrana» della Padania, con tanto di «dichiarazione d'indipendenza», governo provvisorio, giuramento e inno nazionale. Che è lo stesso cantato ieri a Pontida dopo il raduno, cioè il «Va pensiero» del Nabucco di Giuseppe Verdi. Nel Parlamento eletto anticipatamente in quello stesso anno la Lega pretese e ottenne da una sinistra incredibilmente compiacente, detentrice di entrambe le presidenze d'assemblea, di mettere nella intestazione dei suoi gruppi l'obbiettivo della indipendenza della Padania. Ma Berlusconi, si sa, non è tipo che si rassegni facilmente. Nelle elezioni regionali del 2000 egli aveva già ripreso a tessere con la Lega l'alleanza che, dimessi i progetti di secessione, l'avrebbe riportata con lui al governo l'anno dopo. E che la tiene tuttora, ma fra strappi e minacce con il pollice verso.