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Il rischio della piazza

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Dopo la legittima euforia per quanti, noi compresi, hanno sostenuto tutti o alcuni dei referendum c'è bisogno di una riflessione attenta sullo stato del Paese e sui rischi che esso corre. Senza enfatizzare gli apodittici slogan sentiti nelle piazze festose, ci lascia inquieti una dichiarazione al Tg 3 di uno dei giovani dei comitati promotori, bello e riccioluto, che altro non sapeva dire alla Berlinguer che la vittoria era loro e i partiti dovevano andar via. Ripetuta più volte una frase come questa senza senso perché, come diceva la stessa Berlinguer, nessuno aveva messo in discussione il ruolo dei comitati, finisce per essere devastante. La pessima offerta politica degli ultimi 18 anni ha certamente creato uno scollamento tra i partiti e il Paese. Un sistema senza più valori e culture di riferimento imperniato sul leaderismo personale e su alcune opzioni programmatiche quasi sempre sottoscrivibili da tutti non è il sistema politico più idoneo per governare la grande transizione delle società moderne nel terzo millennio con le nuove drammatiche sfide ambientali, finanziarie ed economiche. In questo quadro di debolezza culturale dei partiti il rischio è che una piazza, esaltata giustamente per una vittoria, finisca per credere che essa e non i partiti sia la depositaria del diritto-dovere di governare. Quando questa convinzione erratica della democrazia dovesse consolidarsi, nubi minacciose si stagliano all'orizzonte del Paese perché quella contestazione rivolta oggi contro i partiti si trasferisce nel breve periodo inevitabilmente contro le istituzioni. Le piazze servono alcune volte per vincere ma mai per governare. Prova ne sia il ruolo che esse ricoprono nei Paesi medio orientali dove si riempiono e si svuotano da folle che alternativamente contestano o inneggiano il governo. Nei paesi a democrazia matura le piazze sono uno strumento importante sul terreno partecipativo ma se ad esse non corrisponde un sistema politico con partiti capaci non solo di ascoltare ma anche di elaborare le voci che arrivano dalla società per trasformarle in proposte in uno sfondo vivibile di valori e culture di stampo europeo le stesse piazze si trasformano in strumenti disgregatori del sistema sociale ed istituzionale. E la responsabilità non può che essere dei partiti, diventati da un po' di tempo a questa parte pallidi spettri all'imbrunir del giorno capaci di esistere solo nei litigi televisivi e nelle aule parlamentari peraltro sempre più sorde e sempre più grigie. Siamo giunti a questo punto per responsabilità in parte comuni ma in gran parte legate all'azione politica e ai comportamenti personali di Silvio Berlusconi. È a lui che oggi va chiesto di assumere un'iniziativa di rilancio della politica ritirandosi da Palazzo Chigi e dedicandosi al partito con i più colti del suo gruppo dirigente mettendo da parte le ridicole e devastanti "pasionarie" spesso intrise di volgarità e quel sinedrio che insieme ritengono la politica simile ad un quotidiano di informazione. Purtroppo abbiamo l'impressione che il presidente del consiglio sia entrato nella logica disperata del bunker dove l'unica iniziativa è quella di resistere, resistere, resistere anche se tutto crolla intorno a lui, il Paese e il partito. Agli uomini e alle donne liberi e colti del suo partito spetta in questo momento l'onere di mostrare di essere un gruppo dirigente all'altezza della drammaticità della situazione per non diventare quei filistei seppelliti dalle macerie di un nuovo Sansone ormai privo di lucidità.

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