L'amaro quorum
Berlusconi ha perso. La sinistra ha vinto. Quindici giorni dopo le elezioni dei sindaci di Milano e Napoli, raccontiamo la stessa storia. Il dato più interessante del voto referendario è la conferma della crisi profonda del centrodestra, mentre l’opposizione ha perfino un ruolo secondario. Siamo vicini a un’implosione del blocco politico (non sociale) che ha rappresentato i moderati italiani, ma non alla riscossa del centrosinistra. Bersani, Di Pietro e i loro alleati non sono portatori di una visione del mondo vincente rispetto al Pdl e alla Lega, si limitano a incassare i dividendi elettorali di uno smarrimento culturale e politico del centrodestra che dura da molto tempo e ora comincia a manifestarsi in termini misurabili, cioè in un crollo di consensi e in un boom di voti contrari. Avevamo avvertito da tempo i sintomi di questo fenomeno. Ne scriviamo da mesi. Siamo rimasti inascoltati e chiediamo: caro Cav, serve altro? L’epilogo drammatico del voto dice che Berlusconi sta esaurendo il suo ciclo politico, ma dall’altra parte finora non esiste alcuna alternativa concreta di governo. Questo perché accanto al fenomeno di implosione del centrodestra, si sta sviluppando un cambiamento totale della governance del centrosinistra, scosso da movimenti popolari che per ora lo fanno vincere, ma ne stanno cambiando i vertici e la natura politica. La vittoria è un gran tonificante, non ci sono dubbi, tuttavia prima o poi queste contraddizioni esploderanno e il Paese si ritroverà di fronte al dilemma eterno della politica: che fare? La situazione così come si sta configurando lascia poco spazio alla manovra e alla fantasia: Berlusconi è chiuso nel bunker, i suoi avversari esultano ma non hanno un progetto per il dopo, le istituzioni sono fragili, il solo Quirinale resiste alla bufera ma è costretto ad una politica di «stop and go» che non si tramuta in alcun progetto di sicuro respiro postberlusconiano. La ciccia della faccenda sta tutta qui, il resto è gioco teorico o, peggio, propaganda di basso livello. Le ragioni della sconfitta le abbiamo ampiamente anticipate. Sono mesi e mesi che nutriamo dubbi sulla strategia complessiva del governo e del Pdl. Ovviamente siamo rimasti inascoltati. Anche in questo numero de Il Tempo, alcuni dei nostri commentatori ne offrono un ventaglio interessante, ma ora è arrivato il momento di aggiungere qualche tassello al mosaico del «dopo», cominciare a disegnare uno scenario «post» e offrire chiavi di lettura originali per una crisi che rischia di diventare qualcosa di profondo, pericoloso e irreversibile. A dire il vero, visti i primi commenti degli esimi esponenti del centrodestra sulla sberla referendaria, mi vien da pensare che qualsiasi cura proposta da queste parti (liberali) sia destinata a restare lettera morta. Quando leggo le parole dello stato maggiore del Pdl e della Lega, ho la netta impressione che non ci sia più niente da fare, tale è il livello di autoreferenzialità, di difesa dell'errore, dell'ostinazione a ripetersi e contraddirsi. Dire che l'esito del referendum non ha ricadute sul quadro politico generale e sul governo, minimizzare l'impatto economico e sociale del referendum sul nucleare significa un allineamento alle scelte governative non smuove di un millimetro la posizione perdente del Pdl e della Lega, non aiuta a ricucire la frattura netta che s'è creata tra una parte dell'elettorato moderato e Berlusconi, non conduce a nessuna alternativa se non quella di tirare a campare sapendo che si è destinati a tirare prima o poi le cuoia. Bene, alla fine della fiera elettorale, la domanda da porsi in questo momento è una sola: Berlusconi è in grado di mandare avanti il governo? Può essere lui il candidato del centrodestra alle prossime elezioni politiche? Io penso che siano ben pochi - anche nel Pdl - a poter rispondere sì con certezza a entrambi i quesiti. È vero, i governi cadono in Parlamento e finché Berlusconi ha i numeri, può andare avanti nel magheggio parlamentare e vedere cosa succede giorno per giorno. Ma è altrettanto chiaro che il voto referendario è un cataclisma e che il Cav ha il dovere di guardarlo non solo sotto il punto di vista delle conseguenze sulle materie dei quesiti (pesanti e costose per i contribuenti), ma anche e soprattutto sul piano politico generale. Uno statista deve saper riconoscere i propri errori e dopo due sconfitte pesantissime trovare il coraggio di ripensare il suo programma di governo, il suo partito, il suo ruolo per il futuro, ammesso che possa e voglia averne uno. Senza giri di parole: Berlusconi è in una situazione difficilissima. È il capo di un partito e di un governo, incarna la doppia carica di leader di una maggioranza e di presidente del Consiglio. Veste dunque i panni di un leader carismatico che ha perso un pezzo fondamentale del carisma, che sembra aver davvero dato fondo a gran parte delle sue risorse, che non riesce più a convincere la maggioranza degli elettori. Brutta situazione. Intendiamoci, non c'è niente di straordinario in tutto questo, è materia quotidiana della politica, solo che nel caso di Berlusconi parliamo di un fenomeno che ha attraversato e permeato diciassette anni di storia italiana, al punto da apparire imbattibile anche quando in realtà le elezioni le perdeva. Un'icona talmente forte da scagliare il centrosinistra in un perenne stato di sindrome da sconfitta. Poi, improvvisamente e senza un'apparente spiegazione razionale, la situazione s'è invertita. E qualsiasi cosa dica o faccia oggi il Cav, la figura di Berlusconi è agganciata e associata a un ciclo politico negativo, peggio, ridicolo, colpito e affondato con l'arma che lui aveva sempre saputo brandire meglio contro l'avversario: l'ironia e la leggerezza. Anche qui non c'è niente di strano o inedito, ma è chiaro che questo è il preludio di un trauma più grande, un colpo al quorum difficile da assorbire. La ferita sanguina e si vede. Non penso che Berlusconi ora debba dimettersi, questa appare come una storia da lungo addio. Ma potrebbe almeno provare a rimettersi. In pista, in gioco, in discussione. Reagire con fastidio alla manifestazione ideata da Giuliano Ferrara al Teatro Capranica, non contemplare mai l'idea che un altro tipo di rapporto con gli elettori è possibile e auspicabile, non vedere l'occasione delle primarie nel Pdl come l'unica per ritrovare un po' di partecipazione e vita politica, non intuire tutto questo, significa avere perso la bussola della politica, avere lasciato ad altri il timone. Un leader non lascia che il suo messaggio politico venga disperso, banalizzato, strumentalizzato e distrutto da mezze figure che ne sfruttano la scia solo per fare carriera personale. Se Berlusconi volesse, potrebbe ancora dire la sua nello scenario politico: ha la leva del governo e può cominciare a pensare a un tempo finale della sua straordinaria avventura politica che ne salvi l'essenza, le cose buone, le disordinate intuizioni e qualche indubbio merito storico. Separare leadership e premiership sarebbe un rivoluzionario atto di umiltà e coraggio, tanto per cominciare. Accettare di aprire il partito al popolo sovrano attraverso le primarie e chiudere l'epoca del partito anarco-carismatico sarebbe intelligente e per niente pericoloso. Impossibile? In politica niente è precluso. E la storia di Berlusconi lo dimostra. Solo che bisogna avere la forza di accettare la sconfitta e ripartire sapendo ascoltare gli altri. Temo che l'epilogo sarà meno saggio e più rumoroso: vedo una fragorosa caduta, in cui il clangore della rovina viene coperto da applausi, sputi e risate di folle e distruttiva allegria. Sempre più giù. Perché non è successo niente, il problema sono gli altri e allora avanti così verso l'ignoto. Buona fortuna.