Una storia sbagliata
Il referendum abrogativo delle leggi, o parti di esse, da non confondere, per carità, con quello fondativo della Repubblica svoltosi il 2 giugno 1946 nacque male e si sviluppò peggio, dando ragione ai pochi - allora - che ne seppero prevedere i guai politici per un uso distorto. Fra quei pochi ci fu Alcide De Gasperi, che faticò anche all'interno del suo partito, la Dc, per farsi capire e sentire. Gli rimase, come vedremo, solo la possibilità di ritardarne l'attuazione. La nascita, ma forse sarebbe meglio parlare di concepimento, avvenne all'Assemblea Costituente addirittura con un imbroglio, passato lì per lì inosservato e denunciato dopo molti anni da quel rompiscatole che sapeva, e saprebbe ancora essere, visto che è felicemente in vita, Giulio Andreotti. Fu lui all'inizio degli anni Novanta, quando cominciarono a fiorire i referendum sulla legge elettorale, che spulciando nei suoi ricordi personali e negli archivi scoprì e denunciò che la materia elettorale era scomparsa per ragioni misteriose da quelle che l'Assemblea, con tanto di votazione, aveva escluso dal raggio d'azione del referendum abrogativo. L'aveva esclusa insieme con «le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali», tutte elencate nell'articolo 75 della Costituzione. La manomissione, sospetta a causa dei contrasti che sulla questione si erano registrati nei passaggi tra commissione e aula, avvenne nell'ufficio di presidenza della Costituente, autorizzato dall'assemblea a quello che tecnicamente viene definito "coordinamento" di un testo legislativo. E che dovrebbe servire solo ad eliminare strafalcioni e ripetizioni. Quando Andreotti se ne accorse, all'inizio - ripeto - degli anni Novanta, la sua denuncia cadde praticamente nel vuoto politico. Nessuno se la sentì di sfruttarla contro i referendum elettorali in arrivo prima per ridurre le preferenze ad una sola, destinata però a scomparire pure lei, e poi per passare dal sistema proporzionale a quello parzialmente maggioritario con cui si votò per la prima volta nel 1994. D'altronde, anche volendo cogliere la palla lanciata da Andreotti, non si sapeva neppure come giocarla nel campo costituzionale. L'Assemblea Costituente era bella che morta e sepolta, i suoi testi erano belli che promulgati. Dalla Corte Costituzionale giunsero segnali chiari di incompetenza o indisponibilità ad occuparsene. Diciamo che, visti i troppi anni passati da quello che Andreotti benevolmente aveva definito errore, si convenne tacitamente sulla opportunità di considerare prescritto l'incidente, se non lo vogliamo chiamare reato. Ma già nel 1952, quattro anni dopo l'entrata in vigore della Costituzione, l'allora presidente del Consiglio De Gasperi si era accorto dei guai che avrebbe potuto procurare il referendum al sistema elettorale, ch'egli si proponeva di cambiare con l'introduzione di un premio di maggioranza. Esso fu istituito nel 1953, fra tumultuose proteste delle opposizioni nelle aule parlamentari, dove definirono "truffa" quella legge. Che pure prevedeva l'assegnazione di un supplemento di seggi solo al partito, o coalizione di liste, che avesse raccolto la metà più uno dei voti validi, cioè la maggioranza. Truffa o non truffa, la legge comunque alle elezioni di quello stesso anno non scattò per poche e sospette decine di migliaia di voti, che l'allora ministro dell'Interno Mario Scelba avrebbe voluto impugnare. Ma De Gasperi, deluso e stanco, glielo impedì per non inasprire ulteriormente gli animi. Il ciclo della sua straordinaria carriera politica e della sua stessa vita stava ormai terminando. Egli sarebbe infatti morto l'anno dopo. Alla comparsa delle prime voci o indiscrezioni sul progetto degasperiano di un premio di maggioranza le opposizioni di sinistra si erano mobilitate pensando di chiederne, una volta approvato, l'abrogazione per via referendaria. La materia elettorale, come abbiamo già visto, era stata provvidenzialmente esclusa nel testo della Costituzione da quelle non sottoponibili a referendum abrogativo. I comunisti, in particolare, cominciarono pertanto a brigare perché si provvedesse alla disciplina del referendum, in modo da consentirne un rapido uso. Ma De Gasperi si affrettò ad allertare per iscritto il vice presidente del Consiglio Attilio Piccioni, che si occupava delle leggi attuative della Costituzione, perché il referendum rimanesse ad esistere solo sulla carta. E vi rimase per altri 18 anni, sino al 1970, quando la Dc - come ha ricordato ieri ai nostri lettori l'ottimo professore ed amico Francesco Perfetti - ne reclamò e ottenne dagli alleati di centrosinistra e dai comunisti la disciplina come contropartita della legge istitutiva del divorzio. Che essa era costretta, dai vincoli di alleanza di governo con i socialisti e i laici, a subire ma che sperava di riuscire a fare poi abolire dall'elettorato con quello che sarebbe stato il primo di una lunga e tortuosa serie di referendum abrogativi. Il referendum sul divorzio mise subito in imbarazzo i comunisti per paura che il loro elettorato si dividesse. Ma la paura si diffuse pure tra i democristiani, per la stessa ragione. Prevalse pertanto in entrambi i maggiori partiti, una volta partito il diabolico meccanismo referendario, di arrestarlo con qualche intervento parlamentare sulla legge. Indetto per la primavera del 1972, il referendum fu rinviato di ben due anni, al 1974, per un non casuale scioglimento anticipato delle Camere. La legge attuativa dell'istituto referendario impedisce infatti la sovrapposizione con le elezioni politiche. Ma neppure nei due anni guadagnati con quel rinvio la Dc, il Pci, il Psi e i laici riuscirono a trovare un accordo, per quanti leader democristiani vi si fossero impegnati, da Amintore Fanfani a Giovanni Leone, da Andreotti ad Aldo Moro, spesso anche con qualche incoraggiamento da oltre Tevere, dove non mancavano preoccupazioni, sia pure minoritarie, sull'esito di uno scontro referendario. Che in effetti si concluse con la netta sconfitta degli antidivorzisti, rappresentati politicamente dalla Dc e dal Movimento Sociale, non per questo però alleati di governo. Per quanto avvenuta sul tema certamente delicato ma circoscritto del divorzio, la sconfitta referendaria della Dc segnò una svolta che più politica non poteva rivelarsi. Il peso contrattuale dello scudo crociato nei rapporti con i tradizionali alleati di governo, di centro e di centrosinistra, calò a vista d'occhio. Lo stesso segretario del partito, che era allora Amintore Fanfani, ne fu alla fine travolto. La curva elettorale dei comunisti si impennò portandoli nel giro di soli due anni alla prospettiva addirittura del sorpasso sulla Dc, che fu evitato nelle elezioni politiche anticipate del 1976 solo grazie alla mobilitazione dei moderati favorita da Indro Montanelli con la famosa formula del voto «col naso turato». Che molti democristiani non gradirono ma realisticamente incassarono, non riuscendo tuttavia ad evitare poi il difficile passaggio, tra una grave crisi economica e i fuochi del terrorismo, della politica di «solidarietà nazionale». Così fu chiamata l'intesa di maggioranza parlamentare con il Pci di Enrico Berlinguer, che peraltro impose ai democristiani anche il boccone amaro della legge sull'aborto, anch'essa sopravvissuta ad una contestazione referendaria. Dopo il referendum sul divorzio la Dc insomma non fu più la stessa. E non lo fu, in generale, la politica italiana. Che si inabissò in una instabilità dalla quale uscì solo con i quattro anni consecutivi di governo guidati, fra il 1983 e il 1987, da Bettino Craxi. Il quale sopravvisse politicamente all'insidioso referendum sulla scala mobile dei salari, promosso contro di lui dai comunisti, ma non ai referendum contro il nucleare e sulla responsabilità civile dei magistrati. Per evitare i quali, rinviandoli peraltro solo di alcuni mesi, la Dc guidata da Ciriaco De Mita provocò la crisi e ottenne lo scioglimento anticipato delle Camere. Anche i referendum che seguirono a quello sul divorzio si rivelarono quindi carichi di insidie e di effetti politici. Ed anche di distorsioni legislative e istituzionali, come quelli elettorali. Ai quali la Corte Costituzionale, con decisioni delle quali alcuni giudici di allora ed altri sopraggiunti si dolgono solo in privato, ha concesso non di abrogare leggi in vigore, o parti di esse, come dice la Costituzione, ma di cambiarne spirito ed effetti con amputazioni chirurgiche adatte ad un Parlamento, non certo di un corpo elettorale. Che è chiamato a dire sì o no a quesiti la cui lettura comporta un'alta preparazione giuridica, o l'assistenza di un bravo avvocato nella cabina elettorale. Non vi è campagna referendaria che possa decentemente spiegare quei quesiti ad un elettore di cultura media. D'altronde, gli stessi giuristi e costituzionalisti parlano, senza vergognarsene, di referendum "manipolativi", più che abrogativi. Manipolare non è un bel fare: è cosa più da imbroglioni che da gente perbene. E non sono gratificanti neppure i referendum disinvoltamente traditi il giorno dopo, come quelli che abolirono il Ministero dell'Agricoltura, tuttora operante sotto altro nome, o il finanziamento pubblico dei partiti, tuttora elargito sotto forma di rimborsi elettorali, o il diritto dei magistrati di non rispondere dei danni procurati con i loro errori. Un diritto di cui dopo il referendum abrogativo del 1987 - quello già ricordato per l'interruzione che costò all'esperienza di governo di Craxi - le toghe continuano a godere al riparo di una legge studiata ed approvata in pochi mesi. Essa ha consentito solo quattro volte, se non ricordo male, di arrivare ad una sentenza, per danni peraltro pagati dallo Stato. Che ha la facoltà, che non mi risulta mai esercitata, non l'obbligo di rivalsa sul magistrato colpevole, per quanto la rivalsa non possa superare il terzo dello stipendio di un anno. Entusiasmarsi ad una simile storia dei referendum è francamente difficile, specie di fronte allo spettro di una loro nuova stagione, dopo i tanti e meritati naufragi nelle acque dell'assenteismo. Che per essere stato, peraltro inutilmente, sostenuto nel 1991 da Craxi, ma anche da Umberto Bossi, in occasione del voto per la preferenza unica, fu ed è tuttora scambiato per un mezzo attentato alla democrazia. Eppure sull'assenteismo hanno poi puntato anche partiti e leader di sinistra contro referendum a loro non graditi, come quello sulla disciplina dei licenziamenti. Adesso è tornato d'obbligo politico e morale il voto referendario, dovendolo o volendolo usare contro il governo dell'odiato Berlusconi, come si disse a chiare lettere quando si raccolsero le firme di promozione e si è continuato a dire sino a qualche settimana fa, quando i referendari più astuti o cinici, per ingannare gli elettori di centrodestra e non trattenerli a casa, hanno cambiato parole, non certo strategia.