Non prendiamoli sul serio

Non andrò sicuramente al mare, viste anche le incertezze metereologiche. Ma non fatevi illusioni, signori referendari, non andrò neppure alle urne. Dei vostri quattro referendum di oggi e domani, mi viene la nausea solo a scriverne. E, visto il silenzio che mi pare abbia osservato in tutti questi giorni, penso di essere in compagnia persino di Mariotto Segni. Che in anni ormai lontani era riuscito a strappare la palma dei referendum addirittura a Marco Pannella. Egli era arrivato a chiamare Refi, appunto da referendum, il suo cane, come lui stesso racconta in un bel libro pubblicato l'anno scorso da Rubbettino, scritto con la sofferenza di uno che celebra la fine di una stagione, vista la lista lunghissima delle prove referendarie naufragate nell'assenteismo dopo il 1995. Sì, so bene, cari signori referendari, che questa volta invece potreste farcela a raggiungere il cosiddetto quorum. E che avete intenzione, se non vi riusciste, di imbastirci sopra una vertenza giudiziaria per via di quel grande pasticcio che è il voto degli italiani all'estero. Un pasticcio che la sinistra dei Bersani e dei Vendola digerisce solo se serve, come accadde nelle elezioni politiche del 2006, per attribuirsi una vittoria risicatissima e allestire l'ultimo governo di Romano Prodi. Non andrò a votare anche a costo di deludere sia il presidente della Repubblica, che ha voluto fare nei giorni scorsi una specie di spot per l'obbligo del voto, sia il presidente del Consiglio. Che sembra essersi pentito nel giro di ventiquattro ore, o quasi, dell'annuncio di disertare le urne referendarie temendo di subire, come Bettino Craxi nel 1991 con il referendum per la preferenza unica, il contraccolpo di una vittoria dei sì. Pazienza per entrambi. Napolitano mi negherà, se mai gli fosse venuta la tentazione, un commendatorato e Berlusconi mi darà del rompiscatole. I quattro referendum di oggi e domani sono merce avariata, che solo un sistema costituzionale come il nostro, dove l'ipocrisia prevale sulla sincerità e la demagogia sulla logica, poteva permettere. Ed ha permesso. Quello contro il nucleare, per cominciare dal referendum che fa da traino sugli altri per portare alle urne quanta più gente è possibile, si nutre della paura, salita dopo la sciagura recentissima di Fukushima. Ma la paura è sempre una cattiva consigliera, come la rabbia ed altro ancora. Si dice no al nucleare come si è tentati di dire sì alla pena di morte dopo un delitto particolarmente efferato. Non dimenticherò mai la pena capitale reclamata alla Camera dal buon Ugo La Malfa dopo il tragico sequestro di Aldo Moro, la mattina del 16 marzo 1978. E se è desiderio di pena di morte anche quello che, nel timore di un disastro, viene cinicamente attribuito ai sostenitori del nucleare, c'è il rovescio della vita salvata e garantita, con il nucleare e le sue applicazioni, a tanti malati. I due referendum contro la possibile privatizzazione non dell'acqua, che rimane pubblica, ma della sua gestione, e basta, sono un'autentica sfida alle regole europee: le stesse nelle quali molti dei referendari, a cominciare dal Pd di Bersani per finire ai gay sfilati ieri a Roma, si avvolgono come se fossero bandiere, specie quando servono a fare le pulci al Cavaliere e al suo governo. Il referendum, infine, contro il «legittimo impedimento» del presidente del Consiglio e dei ministri a comparire nei processi penali a loro carico riguarda una legge a termine, oltre che già decapitata dalla Corte Costituzionale. Quel poco che n'è rimasto scadrà inderogabilmente alla fine di ottobre, cioè fra quattro mesi, dei quali almeno due di sostanziale fermo giudiziario per ferie. Si fa un referendum, con i costi economici e politici che comporta, per anticipare praticamente di otto settimane la morte di una legge agonizzante. Non mi sembra una cosa seria. Più ancora di un no ai loro quesiti abrogativi, Di Pietro e gli altri referendari credo che meritino il rifiuto di essere presi sul serio: una grande metaforica pernacchia.