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Meno tasse. Più coraggio

Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi

Tremonti: la crisi non è finita

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Si sta preparando una riforma fiscale a due stadi, come i contendenti: Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Il primo stadio, da attuare quest'anno (ma dopo aver garantito al ministro dell'Economia la blindatura della manovra da 45 miliardi entro il 2014) è il segnale che il Cavaliere vuol lanciare subito agli elettori. Consisterebbe in un taglio di tre punti dell'aliquota Irpef più bassa, oggi al 23 per cento sui redditi fino a 15 mila euro. E di un micro-taglio dell'Irap di 0,5 punti che allevierebbe la parte di questa imposta scervellata che si paga in relazione alla manodopera, la famigerata tassa sul lavoro. Poiché siamo sul filo del rasoio con l'Europa, questi sgravi dovrebbero essere a costo zero, cioè trovando le risorse all'interno dello stesso sistema fiscale. E dunque in primo luogo aumentando di un punto l'Iva ordinaria (oggi al 20 per cento) e ridotta (oggi al 10). Poi iniziando a disboscare la giungla 476 deduzioni e detrazioni, spesso frutto del pluridecennale lavoro delle lobby. Infine, se servirà, innalzando l'imposta sugli interessi, oggi al 12,5 per cento. Risultato? Sui primi 15 mila euro di reddito imponibile si pagherebbero 450 euro di tasse in meno l'anno, 37,5 al mese. Non cambia la vita, ma per chi campa con quegli introiti è comunque qualcosa. Attenzione, però: parte del risparmio verrebbe restituita a causa di quel punticino in più di Iva. Un motorino da 3 mila euro ne costerebbe 30 in più. Duemila euro di bollette l'anno, altri 20. Mille euro di fatture mediche altri dieci. E così via. Un mobile, un cellulare, una vacanza, tutto costerebbe di più. Ne varrebbe la pena? In linea di principio sì: il trasferimento delle imposte dalle persone alle cose è in tutti i sistemi fiscali avanzati, ed è anche un impegno di questo governo. All'atto pratico, però, andrebbe raffrontato all'effettivo beneficio iniziale. Nel 2008 i contribuenti che hanno dichiarato fino a 15 mila euro di reddito sono stati circa 20 milioni su un totale di 41. Ma occorre tenere conto della fascia esente che nel lavoro dipendente riguarda i redditi fino a 8 mila euro, e per gli autonomi fino a 4.800. Oltre dieci milioni di persone, e proprio quelle a reddito più basso, non avrebbero quindi benefici, mentre pagherebbero l'Iva maggiorata. L'alternativa allo studio è ridurre l'aliquota media del 27 per cento pagata sui redditi da 15 a 28 mila euro: riguarda in primo luogo 15 milioni di contribuenti, più tutti quelli che stanno sopra. Ma per finanziare il doppio sgravio – di tre punti più uno – non ci sono le risorse, e dunque si parla del calo di un punto delle due aliquote più basse, dal 23 al 22 e dal 27 al 26. Questa operazione farebbe risparmiare al contribuente medio italiano, con reddito di poco inferiore a 30 mila euro, 280 euro l'anno. Ne beneficerebbero più persone, 35 milioni di contribuenti, i tre quarti del totale, ma con un sollievo ancora minore. Infatti mentre il costo della prima operazione è di 13,7 miliardi, quello della seconda è più o meno la metà. Lo sgravio mignon consentirebbe di evitare l'aumento della tassa sui risparmi, operazione invisa al Cavaliere e ai suoi elettori; e forse di togliere qualcos'altro dall'Irap. Fin qui l'assaggio per il prossimo anno. Dopodiché Tremonti presenterebbe la riforma vera e propria attraverso una delega che produrrebbe benefici concreti entro il 2013, anno elettorale. Si sa già però che il ministro intende muoversi sugli stessi binari: riducendo le imposte dirette e aumentando le indirette, disboscando le agevolazioni, innalzando la tassa sugli interessi. Va benissimo, ma la domanda è un'altra: basterà per ridurre la pressione fiscale complessiva, che l'anno scorso è stata del 42,8 per cento del Pil, largamente al di sopra della media europea? Certamente no, se la delega verrà attuata spostando imposte da una parte all'altra. Altra domanda: è davvero questa la riforma di cui ha bisogno il Paese per rilanciarsi? Ecco: secondo noi bisognerebbe partire proprio da qui. Per avere una pressione fiscale di tipo europeo, cioè leggermente al di sotto del 40 per cento, e quindi pensare davvero di rilanciare la crescita, occorre finanziare i tagli con altre risorse. E siccome varrà sempre il principio per cui non si può farlo in deficit, bisogna potare altrove, al di fuori dell'area tributaria. Insomma, rispetto all'idea tremontiana della riforma a costo zero, si deve osare di più. Ma in che modo? Non siamo la Ragioneria dello Stato, ma qualche idea ci viene in mente. In attesa dei famosi tagli verticali, cioè nel merito, alla spesa pubblica. Per esempio: ricordate la più volte promessa abolizione delle province? Si è detto che non renderebbe nulla perché gli impiegati andrebbero ricollocati. Certo, ma a fine carriera non dovrebbero essere rimpiazzati. E comunque dai dati forniti dall'Unione province italiano salta fuori che non si tratterebbe di bruscolini: il costo complessivo delle 109 province, tra spese correnti e in conto capitale, è di 20 miliardi l'anno. Delle spese correnti, due terzi servono per il mantenimento della macchina burocratica. Dunque si potrebbero risparmiare in partenza 3-4 miliardi l'anno, che aumenterebbero con il decrescere dei dipendenti. Ma non solo. Ci sono gli stipendi dei presidenti (da 4 a 7 mila euro) e dei vice (da 3 a 4.500) ed i gettoni di assessori e consiglieri. I costi per le campagne elettorali. Vogliamo tenerci bassi e dire che in partenza si possono risparmiare 4-5 miliardi l'anno e a regime quei famosi venti? Andiamo avanti. Il governo aveva annunciato la riduzione del 20 per cento dei consiglieri comunali, che in città come Roma, Milano, Napoli, Torino erano ben 60 e con le ultime amministrative sono in effetti scesi a 48. Risparmio stimato, 213 milioni. Ma ci si può chiedere: perché a palazzo Marino, e naturalmente in Campidoglio, devono sedere 48 consiglieri mentre a Montecitorio ci sono 630 deputati ed a palazzo Madama 315 senatori? Dove stanno le proporzioni? Il congresso americano conta 435 deputati e 100 senatori: vogliamo ipotizzare che le decisioni che prende siano abbastanza rilevanti? Se riducessimo a 30 il numero dei consiglieri nelle città maggiori, ed a 20 in quelle minori, la nostra vita pubblica ne risentirebbe? Quei 213 milioni aumenterebbero ad ben oltre mezzo miliardo l'anno. A cui si aggiungerebbero i risparmi su auto blu, segreterie, cellulari, uffici, campagne elettorali. Proseguiamo. Roma, per fare un esempio a noi vicino, ha 20 municipi. Con relativi mini-sindaci, assessori e consiglieri. New York ha cinque distretti, o contee. Si potrebbe trovare una via di mezzo? O ancora: la Sicilia ha 90 deputati regionali, 14 più del senato australiano. Ma anche Lombardia (80) e Lazio (70) non scherzano. Tirate le somme, noi contribuenti italiani manteniamo 120.490 consiglieri comunali, 3.246 consiglieri provinciali, 35.254 assessori comunali, 858 assessori provinciali, 1.117 consiglieri regionali. Circa 170 mila poltrone. Riducendole della metà arriveremmo a un altro miliardo di risparmi strutturali. Prendiamo il Cnel, Consiglio generale economia e lavoro. Costa 25 milioni l'anno, non molto direte, ma i suoi dirigenti viaggiano intorno a stipendi dai 300 ai 500 mila euro, ed i dipendenti intorno ai 100 mila. Il punto però è: a che serve? La Corte costituzionale e la Corte di Cassazione hanno rispettivamente 14 e 37 magistrati; la Corte suprema americana – che grosso modo riunisce le competenze di entrambe – ne ha nove. E così il Consiglio costituzionale francese. La Corte suprema inglese ha 12 giudici, quella tedesca 16, quella spagnola 12. Poi noi abbiamo il Consiglio di Stato (101 giudici) ed i Tar (392): un esercito di 493 magistrati amministrativi, ai quali si aggiunge qualche migliaio di dirigenti, direttivi, impiegati di concetto, esecutivi, dattilografi e ausiliari suddivisi in sei livelli di carriera e stipendi. E tralasciamo la giustizia penale e civile. Ci fermiamo qui per ora. Abbiamo fornito alcuni esempi di tagli per finanziare una riforma fiscale vera: tagli non solo possibili, ma doverosi. Per restituire ai contribuenti soldi veri, e per dimostrare che ridurre i costi della politica e delle poltrone si può. Un segnale – chiamiamo le cose per nome – etico.

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