Tutti se infischiano del contenuto. E anche il centrodestra sbaglia
Anche se in questi giorni piove, con l’estate, o giù di lì, arrivano gli incendi. E ogni tanto in Italia anche i referendum. Che i governi di turno fissano di solito la domenica più vicina alla data limite del 15 giugno, per scoraggiare l’affluenza alle urne e vanificarne i risultati. La cui validità dipende dal cosiddetto quorum, cioè dalla partecipazione al voto di almeno la metà più uno degli elettori iscritti nelle liste. Nel nostro caso, quello cioè di domenica e lunedì prossimi, dovranno votare non meno di 25 milioni 332 mila 487 elettori. Alcuni dei quali, peraltro, quelli residenti all'estero, lo hanno già fatto. Ma con una scheda, riguardante il nucleare, che non vale più, avendo la Cassazione disposto di stamparne altre, che non potrebbero materialmente pervenire in tempo a chi le volesse adoperare, ammessa e non concessa la possibilità di sostituire con le nuove quelle vecchie già riempite e spedite. È un bel pasticcio. Che però non è l'unico, e neppure il più inquietante di questa tornata referendaria. Che ha in comune con gli incendi non solo la stagione ma anche la puzza di bruciato che li accompagna con il fumo, prima ancora che da lontano si riescano a vedere bene anche le fiamme. I governi per ragioni di semplice logica subiscono i referendum abrogativi di una legge o di una parte di essa, come dice l'articolo 75 della Costituzione. Che infatti ne affida la promozione a 500 mila elettori o cinque Consigli regionali. Un governo che volesse abrogare una legge, lo farebbe in Parlamento con la sua maggioranza, senza scomodare gli elettori. Se non lo fa, vuol dire che non vuole. O non può per le divisioni della sua maggioranza, una parte della quale a quel punto può avere interesse a sostenere l'iniziativa referendaria di altri, che evidentemente si muovono dall'opposizione. Il governo in carica si può dunque considerare parte lesa, diciamo così, dei quattro referendum in arrivo. Che riguardano tutti – uno sul nucleare, due sull'acqua e uno sul legittimo impedimento del presidente del Consiglio e dei ministri a comparire sino a fine ottobre prossimo nei processi penali a loro eventuale carico – leggi promosse ed approvate dalla maggioranza di centrodestra negli anni scorsi. O addirittura nelle scorse settimane, essendo appena stata modificata la normativa sul nucleare con una moratoria che la Cassazione non ha ritenuto però sufficiente a far decadere la richiesta referendaria di abrogazione, per cui ne ha solo disposto il cambio di quesito e di scheda, con gli inconvenienti già accennati per gli elettori residenti all'estero. In queste condizioni puzza di bruciato, cioè di imbroglio, diciamolo con franchezza, il tentativo del governo e dei vertici della maggioranza di tirarsi fuori dalla partita, di dichiarare la propria indifferenza e di assegnare «libertà di coscienza», o «di voto», agli elettori. Come se questi ultimi, peraltro, avessero bisogno di un permesso per prendersela, la loro sacrosanta libertà di coscienza e di voto. Gli elettori, di maggioranza ma – come vedremo – anche di opposizione, vecchia e nuova, vanno rispettati davvero, non solo a parole. E il rispetto comporta l'obbligo per un governo e un partito di avere una linea e di esporla, con un sì o con un no all'abrogazione, senza ricorrere al calcio d'angolo del ni o del falso «non me ne frega niente». Se è sì all'abrogazione lo si dica, spiegando bene in questo caso le ragioni per le quali si è cambiata idea rispetto al momento in cui è stata approvata quella legge. Se è no, lo si dica altrettanto chiaramente, confermando le ragioni per le quali si è voluta la legge sotto verifica referendaria. E si spieghi bene, in questo caso, che appartiene legittimamente alla logica del no il rifiuto del voto, finalizzato a far mancare al referendum il numero di elettori richiesto per la sua validità. Questo non sarebbe sabotaggio, come sprezzantemente viene definito da certi moralisti da strapazzo, ma semplice esercizio di un diritto all'astensionismo referendario riconosciuto agli elettori dalla Costituzione nel momento stesso in cui essa ha fissato una soglia minima di partecipazione alle urne per la validità del risultato. Le opposizioni, dal canto loro, per invogliare l'affluenza degli elettori di centrodestra alle urne referendarie non possono imbrogliarli negando alle prove di domenica prossima quella valenza politica antigovernativa, e più in particolare antiberlusconiana, gridata ai quattro venti sino a due settimane fa. Sino a quando cioè il principale promotore di questi referendum, il solito Antonio Di Pietro, ha deciso di cambiare tattica, non certo strategia. Che rimane la stessa. E che Eugenio Scalfari ha avuto la ribalda cortesia, diciamo così, di confermare ieri scrivendo che «i referendum del 12 e 13 giugno possono infliggere un secondo colpo ancora più micidiale al centrodestra provocandone la definitiva implosione», dopo i ballottaggi amministrativi di fine maggio. Pur di perseguire questo risultato il Pd del sempre più disinvolto Pier Luigi Bersani, anche se Scalfari non glielo contesta, ha ribaltato sui referendum riguardanti la gestione dell'acqua, peraltro fra rumorose proteste interne, la posizione liberalizzatrice assunta quando era al governo. Lo stesso vale per certi finiani, ma sono così pochi che non vale la pena occuparsene.