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Nel Pd vince il disprezzo

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Pierluigi Bersani

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Imbaldanziti dal successo dei loro candidati, veri e presunti, di prima e di seconda mano, nelle elezioni amministrative di maggio, i dirigenti del Pd e i loro intellettuali di più o meno diretto riferimento sono diventati ancora più supponenti di prima. Il che, dato il livello precedente, sembrava francamente impossibile. Dall'alto del loro già marcato e odioso senso di superiorità, avvertito in senso culturale, morale, a volte persino fisico, lorsignori dell'opposizione dispensano dosi massicce e insopportabili di disprezzo. Che -spiega il dizionario della lingua italiana Devoto-Oli- è "sentimento di risoluta, passionale o commiserante svalutazione nei confronti di persone o cose ritenute indegne o di troppo inferiori". Questa pratica del disprezzo li ha già portati a molte sconfitte. E non è detto che non gliene procuri di nuove, e più pesanti, nonostante il "vento" che sembra tornato sulle loro vele grazie agli errori e ad un certo logoramento degli avversari, a cominciare naturalmente dal Cavaliere. Non mancano di certo argomenti politicamente seri per polemizzare con il presidente del Consiglio e con le sue decisioni. Ma quel finto pacioso e bontempone che è Pier Luigi Bersani che cosa è andato a scegliere ieri davanti ai giornalisti e ai suoi compagni della direzione del partito per attaccarlo? I capelli. Che sono -ha detto con aria sprezzante, non di scherzo, vedendone la faccia- "l'unica cosa giovane" che cresce addosso e intorno a Silvio Berlusconi, grazie a quel trapianto o non so com'altro si chiami il trattamento al quale il Cavaliere si sottopose negli anni passati per cercare di sottrarsi, benedett'uomo, alla calvizie. Che pure non è un difetto fisico. È, al contrario, mille volte preferibile, e preferita pure dalle donne, a certe chiome orripilanti. Ma Berlusconi, si sa, ha le sue manie, o debolezze. Farne oggetto di scherno anche ai fini della lotta e della polemica politica, è semplicemente stomachevole. Denota solo bassezza d'animo. Ma, d'altronde, di che animo, o anima, si può parlare quando non un politico di professione ma un intellettuale che si considera, e viene da molti ritenuto, di grande finezza arriva a scrivere di Berlusconi quello che ha scritto non più tardi dell'altro ieri sulla solita Repubblica il suo fondatore? In particolare, irridendo gli appelli al Cavaliere a tornare quello del 1994, l'anno della "discesa in campo" e della prima vittoria elettorale, Eugenio Scalfari ha sentenziato: "Lui era sbruffone, bugiardo e megalomane. Tal quale è tuttora". E così diciassette anni e più di storia politica vengono implicitamente liquidati con dispezzo come una lunga parentesi di rimbambimento di milioni e milioni di elettori, corsi alle urne per votare -ripeto- uno "sbruffone, bugiardo e megalomane". E siamo a livello di Scalfari, che a modo suo parla a tu per tu in letteratura con Dio onnipotente, magari anche per consigliargli come esercitare meglio le Sue altissime funzioni, calandole nell'orrido delle vicende politiche di questo povero Paese, persosi per quasi 20 anni appresso a Berlusconi. Gli elettori, secondo Scalfari e i suoi discepoli, sono buoni e saggi solo se votano da una certa parte. Se no, sono sprovveduti, se non addirittura mascalzoni, pronti a tutto, meritevoli di interdizione. Sembra non fidarsene ancora molto, anche dopo il "vento" delle amministrative di maggio, neppure Massimo D'Alema. Che è stato per questo bacchettato ieri sulla insospettabile Unità dallo scrittore e sceneggiatore Francesco Piccolo, deluso da alcune interviste nelle quali il presidente del comitato parlamentare di controllo dei servizi segreti, ed ex di tante altre cose, ha preferito allo scenario delle elezioni politiche anticipate quello di un nuovo governo di fine ordinaria della legislatura. Che scadrà fra due anni. L'articolo di Piccolo non è certamente tenero con D'Alema, accusato di avere "una fiducia minima verso il parere degli elettori e una sfiducia massima verso le altre forze di sinistra che non siano il Pd", con le quali evidentemente egli teme di non poter vincere elezioni ravvicinate o di non poter poi governare, se si riuscisse fortunosamente a vincere lo stesso, come del resto è accaduto altre volte. Ma, per quanto colpito anche dal riferimento polemico di Piccolo alle infelici prove di ben due governi in meno di due anni allestiti e guidati dallo stesso D'Alema fra il 1998 e il 2000 per non andare alle elezioni anticipate dopo la caduta del primo governo di Romano Prodi, la sua laconica e sprezzante reazione la dice lunga sulla propria natura. "Primitivo": così egli ha liquidato con i giornalisti il commento comparso -ripeto- sull'Unità, un giornale peraltro del quale fu direttore negli anni del Pci. "Primitivo" fa un po' il paio con quel "vai a farti fottere" gridato dallo stesso D'Alema in televisione ad un giornalista dichiaratamente di centrodestra che aveva osato una volta attaccarlo e tenergli testa.  

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