La disfatta padana
I giornali di ieri, soprattutto del centrodestra, non hanno potuto titolare "Miracolo a Milano" come sperava chi si illudeva sulla possibilità di una rimonta nei quindici giorni che precedevano il ballottaggio di domenica scorsa. La rimonta non c'è stata. E, d'altro canto, non era possibile che ci fosse con uno scorcio di campagna elettorale che - anziché offrire a un elettorato disorientato dai risultati del primo turno seri argomenti di riflessione politica - ha dato l'impressione di un centrodestra stordito e sbandato, incapace di proporre temi concreti e impegnato, al contrario, in un gioco di promesse elettorali "al rialzo" sul modello del populismo sudamericano e, peggio ancora, in un velato scambio di accuse sulle responsabilità della "sconfitta annunciata" al primo turno. Un centrodestra, in una parola, privo di lucidità e votato al suicidio. Il risultato, così, è stato quello che doveva essere. Tanto tuonò che piovve. Adesso, però, a bocce ferme, a urne chiuse e a risultati fissati sulla carta, è necessario fare qualche riflessione che vada oltre la constatazione dell'indiscutibile smacco di Berlusconi. Chi ha vinto in realtà? Non certo, a ben vedere, il partito democratico che, in qualche caso (vedi Napoli), ha toccato un minimo storico e, in altri casi, (vedi Milano) ha assistito al successo di candidati non espressi dalla sua dirigenza. Hanno vinto, e alla grande, il rifiuto della politica, la nausea per il ritorno delle antiche pratiche da "palude" del parlamentarismo vecchio stile, la delusione per una lunga stagione di riforme mancate o appena abbozzate. La crescita dell'astensionismo e la confluenza di voti, almeno al primo turno, sulle liste marginali ne sono una prove eloquente. Ha vinto, altre parole, la protesta contro tutti i partiti e gli apparati di partito: in questo senso, infatti, vanno letti i successi non solo i successi del centrosinistra a Milano e Napoli, ma anche quelli (ben magra consolazione per quest'ultimo) dello schieramento opposto in Calabria. Al di là di queste considerazioni generali, però, il dato più importante - e, vorrei dire, più gravido di conseguenze politiche - è il vero e proprio crollo della Lega nelle sue stesse roccaforti. La disfatta padana è molto più grave di quello che appare e di quanto i commentatori, tutti con l'occhio fisso su Berlusconi e sui suoi destini, abbiano sottolineato. In pratica, soltanto Varese, la storica fortezza dei "lumbard", ha resistito, ma non senza difficoltà perché qui - non dimentichiamolo - il fatto di andare al ballottaggio era già una mezza sconfitta. Ma non basta. Un'analisi di dettaglio del voto leghista rivela che, a ottenere qualche successo o comunque a salvarsi, sono stati quei candidati che in qualche misura si collocano vicino a Maroni. Il che, detto in parole povere, significa che anche la Lega si troverà presto - se non, addirittura, a rischio scissione - a dover fare i conti con dei forti mal di pancia. E non c'è cura di marca "Pontida" che sia in grado di eliminarne la virulenza. La grande maggioranza degli osservatori politici riteneva che i voti eventualmente in uscita dal Pdl potessero confluire nel serbatoio leghista. Tutto ciò non si è verificato. Quel serbatoio si è rivelato un colino. Il mito della invincibilità della Lega si è infranto alla prova dei fatti. E lo stesso carisma di Bossi ha cominciato a subire qualche incrinatura. Adesso, i leghisti saranno costretti a cercare di scaricare la responsabilità della sconfitta sulle spalle del loro alleato. Ma la verità è un'altra. La verità è che la Lega - o, quanto meno, una parte di essa - ha cominciato, da tempo, a cavalcare temi e a seguire comportamenti che non sono in linea con l'immagine di una forza di governo e, in particolare, di una forza di governo che ambisce a presentarsi nuova e innovativa, lontana da clientelismi e nepotismi. Da troppo tempo, infatti, essa ha dato l'impressione, attraverso una prassi ricattatoria quanto meno nel linguaggio, di essere un partito come gli altri, come i vecchi partiti del tempo che fu, alla ricerca di quote di potere e di sottopotere, di poltrone e di poltroncine. Troppo ha tirato la corda di una demagogia spicciola e, alla fine, controproducente. Il ritorno di fiamma antiunitario degli ultimi tempi, proprio mentre tutta l'Italia celebrava il 150 anniversario della raggiunta unità, ne è la dimostrazione più evidente. Nulla ha a che fare il federalismo, lo ricordo per incidens, con la contestazione dello Stato unitario e dei suoi simboli. Gli Stati federali - quelli veri - non mettono in discussione né l'unità nazionale né gli elementi simbolici di questa unità, a cominciare dalla bandiera e dagli inni. Né, tanto meno, confondono il federalismo con la dislocazione o la moltiplicazione delle strutture ministeriali. Il voto di queste elezioni amministrative avrà ripercussioni forti. Non tanto, almeno nei tempi brevi, sul governo. Ma le avrà certamente sul sistema politico nel suo complesso e sulle singole forze politiche, di centrodestra o centrosinistra che siano, le quali ne costituiscono l'ossatura. Queste dovranno fare un esame di coscienza, ridefinirsi e ridefinire i propri programmi e i propri obiettivi. E, di queste, la Lega dovrà essere la prima a riflettere e a rimodularsi. Per non proseguire lungo il viale del tramonto.