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Tremonti e il cambio di passo

Il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti

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Ieri, mentre la politica attendeva l'esito dei ballottaggi, gli addetti all'economia si soffermavano su altri risultati. Il più importante è l'asta dei Btp triennali e decennali: la prima dopo l'outlook negativo di Standard & Poor's del 21 maggio. E dopo la sconfitta della maggioranza di governo già certificata al primo turno delle amministrative e ampiamente in arrivo col secondo. Per dire: il Wall Street Journal, la Bibbia del giornalismo finanziario, in una lunga analisi sui problemi europei suggeriva di tener d'occhio come decisivi i risultati delle aste di titoli spagnoli e italiani. Bene, se la prova dei mercati era decisiva essa è stata superata egregiamente. Il Tesoro ha collocato 8,3 miliardi di Btp con domande largamente superiori all'offerta e rendimenti (e quindi oneri per lo Stato) in calo. Un risultato che segue il successo dell'asta di otto miliardi di Bot della settimana scorsa. Nel frattempo lo spread tra titoli italiani e spagnoli rispetto ai Bund tedeschi, cioè la misura del rischio-Paese, si è ampliato a 70 punti. Secondo dato: l'Istat ha reso noto l'andamento dell'occupazione a marzo nelle grandi imprese. È stabile, ma il ricorso alla cassa integrazione scende del 20 per cento a paragone di un anno fa; mentre l'andamento lordo delle retribuzioni aumenta del 4,7 per cento. Terzo. Dal Centro studi Confindustria, che ovviamente tende e vedere la parte mezzo vuota del bicchiere, arrivano percentuali di maggio in cui spiccano la risalita della produzione al 12,1 dai minimi di marzo 2009, nel pieno della crisi, e una previsione positiva per il secondo trimestre dell'anno. Certo, rispetto ai massimi dell'aprile 2008 non siamo ancora a metà strada, mentre tedeschi e americani hanno già recuperato tutto. Ma è anche vero che il dato atteso della disoccupazione (8,3 per cento) è un punto e mezzo inferiore rispetto alla media europea, non molto distante dal 7,1 previsto per la Germania. Alla fine che cosa esce da questo puzzle, dai quali Mario Draghi trarrà oggi una sintesi logica e politica nella sua ultima relazione da governatore della Banca d'Italia, alla vigilia del decollo verso la presidenza della Bce? Un sistema Italia molto più avanti rispetto alla sua classe politica. Che duramente, ma costantemente, si rimette in piedi dalla terribile crisi di questi anni; una crisi, non dimentichiamolo, non solo industriale e finanziaria, ma che ha anche rischiato di farci sprofondare nel default ai quali è vicina la Grecia, e sono o sono stati prossimi Irlanda, Portogallo, Islanda, con la grande incognita della Spagna. Alcuni giorni fa poche semplici parole della commissaria europea greca Maria Damanaki hanno rotto il tabù spiegando che il ritorno del suo paese alla dracma non è affatto impossibile. Le autorità lo negano, ma i mercati cominciano a crederci. Immaginiamo se uno scenario simile si fosse materializzato per l'Italia: un patrimonio di case o risparmi in euro ce lo saremmo visto repentinamente convertito in lire. Il Paese avrebbe rivissuto al rovescio il criticatissimo film del gennaio 2002, con il passaggio alla moneta europea. Allora si disse, giustamente, che ci era stato imposto un cambio eccessivo a spese del potere d'acquisto. Ma con un rewind oggi, le imprese, le famiglie ed i nostri portafogli si sarebbero impoveriti in misura esponenziale rispetto a nove anni fa. Ecco: non sarebbe male se nel dopo-elezioni si tenesse conto anche di tutto questo. Sappiamo bene che il Cavaliere cercherà di minimizzare la sconfitta attribuendola a candidati deboli o al massimalismo di chi ha vinto. Egualmente il Pd si fregerà di una vittoria che passa in gran parte sull'asse Vendola-Di Pietro. Si parlerà di rilancio del governo o di formule di governissimo. Egualmente si rammenterà che Angela Merkel, Nicolas Sarkozy, Luis Zapatero e Barack Obama sono stati puniti nelle elezioni intermedie. Tutto vero, tutto lecito. Però, come ha scritto domenica Mario Sechi, dal “giorno dopo domani” è obbligatorio (prendendo appunto ad esempio Germania e Usa) un cambio di passo. Oltre a Berlusconi devono farsene carico Giulio Tremonti, la Lega e per la sua parte anche il Pd: tutti e quattro hanno motivi di riflessione, a cominciare dall'economia. Proprio perché il Paese c'è e fa la sua parte, essa è in testa alle priorità degli elettori, ben prima di altri temi. Questo vale nel ricco e trainante Nord, dove la Lega non può più considerarsi padrona e interprete unica; e al Centro-Sud, dove i casi di Napoli e Cagliari reclamano da Tremonti misure vere, non assistenziali, ma neppure all'insegna di promesse e annunci se non si vuole che il Mezzogiorno sia preda del populismo. Quanto al Pd, dovrebbe chiarire se è quello che a Torino difende la Tav e le infrastrutture per il dopo-Fiat, oppure quello che a Napoli appoggia la cancellazione dei termovalorizzatori, o ancora quello che a mezz'ora di distanza, a Salerno, con un proprio sindaco, ha trasformato la pulizia e la raccolta differenziata in un business all'avanguardia in Italia. La campana è suonata per tutti: ci sono due anni di tempo per tornare alle cose serie.

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