La città da bere ora è da salvare
Pur di portare acqua al mulino di Giuliano Pisapia, aiutandolo a vincere anche il ballottaggio con Letizia Moratti , è stata tirata fuori dagli armadi politici nella campagna elettorale persino l'immagine a lungo derisa, o criminalizzata, della «Milano da bere» di memoria craxiana. Alla quale seguì la Milano in qualche modo penitenziale del primo e unico sindaco leghista Marco Formentini. Poi fu la volta della Milano pragmatica e operosa del berlusconiano Gabriele Albertini, il predecessore del sindaco uscente, e sconfitto. Ancora ieri, mentre si recavano alle urne gli ultimi elettori del secondo turno, ma con un risultato già avvertito nell'aria per il troppo forte vantaggio accumulato nel primo turno dal candidato della sinistra, Pisapia otteneva la sua brava sponsorizzazione «riformista» da Giampiero Borghini. Che, subentrato nel 1992 a Paolo Pilitteri, fu l'ultimo sindaco ambrosiano di centrosinistra, mentre le indagini giudiziarie sul finanziamento illegale della politica spazzavano via i protagonisti e gli equilibri della cosiddetta Prima Repubblica, a livello nazionale e non solo milanese. «Pisapia ha fatto una campagna elettorale intelligente e competitiva, sanando una serie di anomalie a sinistra», diceva Borghini a La Stampa. E spiegava: «Non ha demonizzato la storia socialista, che a Milano ha una sua importanza simbolica. A 10 anni (che sono poi 11) dalla morte di Craxi potrebbe essere lui il sindaco che fa un discorso di verità su quella stagione», quella anche della Milano da bere. Prima ancora di Borghini aveva espresso analoga speranza Carlo Tognoli, indicato dallo stesso Borghini fra i protagonisti della «tradizione riformista dei sindaci milanesi con Greppi, Ferrari, Aniasi e in parte Pillitteri». Anzi, Tognoli si era spinto anche più avanti partecipando attivamente al decollo della candidatura di Pisapia e alla conseguente campagna elettorale. Lo aveva fatto, sorprendendo non pochi dei suoi vecchi amici e compagni di partito, dopo essersi impegnato in Lombardia a favore del «governatore» di centrodestra Roberto Formigoni e avere rifiutato vari inviti a spendere il proprio prestigio in operazioni e liste da lui ritenute viziate da un ingiusto e inopportuno spirito antiberlusconiano. Che cosa abbia indotto Tognoli a spendersi tanto per Pisapia francamente non si capisce. Non sembra sufficiente la generosa spiegazione che ne dava ieri a Radio Radicale il buon Massimo Bordin, convinto che il segreto stia nel garantismo sempre praticato e sostenuto dall'ormai nuovo sindaco di Milano. Un garantismo molto apprezzato dai socialisti, spesso vittime del giustizialismo, e imperdonabilmente ignorato dalla Moratti con quell'attacco, per lei rovinoso, a Pisapia per i suoi trascorsi giudiziari negli anni di piombo. Che si risolsero non con l'amnistia, come sostenuto dall'ex sindaco, ma con la piena assoluzione del suo antagonista. Il garantismo, certo, appartiene alla storia professionale e parlamentare dell'avvocato Pisapia, al quale è capitato di votare alla Camera più di una volta in dissenso dal suo partito di allora - Rifondazione Comunista - su leggi ed emendamenti riguardanti la giustizia con il centrodestra. Ed anche di vedersi negare la nomina a guardasigilli in un governo di centrosinistra per il veto sostanzialmente posto contro di lui dal sindacato delle toghe. Ma, per quanto apprezzabile e importante, non basta il garantismo a fare di Pisapia, e di chiunque altro al suo posto, l'espressione genuina o addirittura simbolica del riformismo. Del resto, egli si è candidato, riuscendo ad essere eletto, a sindaco di Milano, non alla Presidenza del Consiglio o alla carica di guardasigilli di un prossimo governo di centrosinistra. Il riformismo, a prescindere dal terreno della giustizia, gli è semplicemente precluso dalla natura e dalla composizione dello schieramento politico che lo ha portato alla candidatura e all'elezione. Pisapia sa di vendolismo più che di riformismo. E il Pd, il principale partito che ne ha assunto la candidatura e garantito il successo finale, non gli potrà dare una mano come riformista perché è ancora più condizionato anche a livello nazionale, specie dopo l'esito del ballottaggio milanese, dall'alleanza con Vendola. Il quale, oltre a gareggiare con Antonio Di Pietro negli insulti a Silvio Berlusconi, scambia l'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne per un negriero. O i risparmiatori che investono in azioni o titoli di Stato per evasori e speculatori. O gli ammodernamenti dei trasporti ferroviari per attentati all'ambiente. O le violenze nei e dei centri sociali, che a Milano sono particolarmente attivi, per intemperanze più o meno giovanili. O la partecipazione alle missioni di pace all'estero disposte dall'Onu per odiose missioni di guerra, arbitrariamente condivise dal capo dello Stato con una capziosa interpretazione, secondo lui, dell'articolo 11 della Costituzione. Più che una Milano da bere, quella di Pisapia rischia di diventare una Milano prima da piangere e poi da salvare.