Ma una crisi spaventa il Pd
Con l'aria di voler fare solo delle previsioni, "Nonno Eugenio", come Giuliano Ferrara chiama da qualche tempo Scalfari con ironia tutto sommato affettuosa, ha consigliato ieri dal pulpito di Repubblica all'opposizione di non investire nella solita richiesta di dimissioni di Silvio Berlusconi un eventuale successo in entrambi i ballottaggi amministrativi di Milano e Napoli. Che Scalfari naturalmente si attende un po' con l'intensità fiduciosa di un vecchio e antiberlusconiano elettore di sinistra, un po' per certi sondaggi della immediata vigilia del voto che gli amici di area politica e professionale, impediti dalla legge a pubblicarli, debbono avergli fatto ugualmente pervenire all'orecchio. Nonno Eugenio formalmente consiglia all'opposizione, ma in realtà soprattutto al principale partito dello schieramento contrario al Cavaliere, di non battere la strada della crisi per la indisponibilità già annunciata dal presidente del Consiglio a mettersi da parte in caso di sconfitta dei suoi candidati a sindaco sotto la Madonnina e il Vesuvio. Una indisponibilità, peraltro, congeniale al temperamento di Berlusconi ricordato bene a noi giornalisti già prima della campagna elettorale di maggio dall'amico che lo conosce meglio e che gli è più affezionato: Fedele Confalonieri. Il quale è convinto che per carattere, appunto, il Cavaliere non sia tipo "da passo indietro, e neppure di lato". Ma evidentemente solo da passo avanti o sopra. E avanti o sopra la carica di presidente del Consiglio, nonostante la sua strada sia stata disseminata di cavalli di frisia e di chiodi giudiziari, ci sarebbe solo quella di presidente della Repubblica. Immaginando la quale a Bersani, ma non solo a lui, si drizzano anche i capelli che non ha. E che magari gli potrebbe prestare amichevolmente in qualche teatro con un bel parrucchino il comico Maurizio Crozza. In realtà, più che dalla conoscenza diretta o indiretta, vera o presunta, dei dati caratteriali del Cavaliere, che in teoria potrebbero riservare sorprese anche a chi gli sta più vicino, a muovere Scalfari al consiglio della moderazione è la furbizia. Cioè la consapevolezza che per la sua intempestività una crisi ministeriale domani o dopodomani non convenga per primo al Pd. Il cui stesso segretario, d'altronde, ha mostrato già qualche giorno fa di capire bene come stiano le cose rispondendo ad un giornalista che gli chiedeva appunto se non avesse intenzione di sollecitare le dimissioni del governo in caso di sconfitta del centrodestra nei ballottaggi amministrativi. Gli chiederemo di fare finalmente qualcosa per il Paese, di portarci proposte in Parlamento, di non occuparsi più dei soli e soliti problemi giudiziari del presidente del Consiglio, aveva all'incirca risposto Bersani. Al quale tuttavia Scalfari ha offerto ieri un consiglio supplementare. Che è quello di non limitarsi ad attendere le iniziative e le proposte del governo, a cominciare naturalmente dalla politica economica, ma di formularne di proprie e "concrete". È qui però che casca l'asino, sia che a montargli sopra sia Scalfari con la sua barba sapiente e ben pettinata, sia che a provarci sia Bersani con la sua calvizie e il sigaro stretto fra i denti. E' veramente in grado il Pd, al di là della boria procuratagli dagli insuccessi amministrativi della maggioranza già arrivati o in arrivo, di formulare proposte "concrete", e alternative al governo, per far seguire alla tenuta dei conti sinora assicurata dal ministro dell'Economia una maggiore ripresa economica, e con essa tutto il resto? Può sottrarsi alla tentazione, che qua e là riemerge quando i suoi esponenti partecipano ai dibattiti televisivi, come è accaduto di recente al senatore Giorgio Tonini battibeccando a Omnibus, de la 7, con il direttore de Il Tempo Mario Sechi, di proporre una tassa patrimoniale e, più in generale, un aumento delle tasse? Che sarebbe, per la impopolarità delle misure e per i loro effetti pratici, un suicidio per la sinistra e per il Paese. Dove la ripresa ha bisogno pure di un sostegno, anzi di un rilancio dei consumi e della produzione, e non di soddisfare l'eterno sogno della sinistra massimalista, magari affisso con i manifesti sui muri, come avvenne con l'ultimo governo di Romano Prodi, di "far piangere finalmente anche i ricchi". Fra i quali naturalmente è iscritto d'ufficio da questi demagoghi a buon mercato anche quello che è semplicemente il ceto medio. Prodi allora, per quanto aiutato da un ministro dell'Economia che non mancava certamente di preparazione, il compianto Tommaso Padoa Schioppa, quello resosi famoso anche per l'insofferenza verso i "bamboccioni", oltre che per l'esaltazione della "bellezza" delle tasse, non andò lontano. E con lui, e il suo governo, affondò la "Unione" che egli aveva orgogliosamente allestito in Italia tornando dalla presidenza della Commissione Europea. Il Pd già non era in grado di formulare proposte "concrete", come dice Scalfari, o solo ragionevoli prima delle elezioni amministrative di maggio, per quanto Bersani le promettesse o persino annunciasse convocando e rinviando convegni. Adesso lo è ancora di meno perché i risultati elettorali hanno spostato ulteriormente a sinistra il suo partito. Che ha potuto affermarsi solo adottando già in prima battuta o inseguendo nel secondo turno i candidati dell'area massimalista, per quanto ben vestiti, per carità, e a volte persino più educati, almeno nelle apparenze, dei loro concorrenti di centrodestra. Di quell'area, che una volta si chiamava bertinottiana ed ora vendoliana, ma che è proiettata ancora più in là a sinistra per assorbire grillini, centri sociali e quant'altro, il Pd oggi mostra di avere bisogno elettoralmente più di ieri, anche a causa della scarsa consistenza del cosiddetto, presunto terzo polo, presumibilmente indebolito anche dalla diffidenza che procura la sua ultima matricola. Che è Gianfranco Fini, approdatovi dopo la rottura con Berlusconi, l'anno scorso, a dispetto di tutti gli inni cantati ad un bipolarismo che nel 1994 gli aveva permesso di chiudere la lunga esperienza della marginalizzazione della destra in Italia. Fallito nei numeri parlamentari il 14 dicembre scorso alla Camera, dove la mozione di sfiducia dei finiani e delle altre opposizioni fu bocciata, il presidente della Camera ha ripetuto il flop nelle urne amministrative di questo maggio raccogliendo percentuali di voto di poco superiori all'1 per cento, spesso a livello di prefisso telefonico. A questo punto, per quanto arroccato nella sua carica istituzionale, come il cognato nella ormai famosa casa di Montecarlo, egli vede in pericolo anche la prospettiva di fare il numero 2 di Pier Ferdinando Casini, accontentandosi del terzo posto, dopo Francesco Rutelli, se non sopraggiungerà qualcuno in grado di fargli scendere altri scalini ancora.