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Elezioni, hanno vinto sofferenza e ossessione

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Sofferenza e ossessione sono le due parole che hanno saputo esprimere al meglio la situazione al termine di questa lunga campagna elettorale di maggio. Di sofferenza, anzi di sofferenza "profonda", ha parlato il ministro degli Esteri Franco  Frattini commentando con umanità non certo sarcastica, diversamente da quanto sono soliti fare dalle parti dell'opposizione, la decisione di Silvio Berlusconi di parlare dei suoi guai giudiziari a chiunque gli sia capitato a tiro nel G8 appena svoltosi a Deauville. Di ossessione ha invece parlato il segretario del Pd Pier Luigi Bersani commentando pure lui, ma con la ferocia che da qualche tempo ha deciso di sostituire a una sua vecchia e gradevole bonomia, gli sfoghi del Cavaliere all'estero sulla sua esperienza quasi ventennale di imputato eccellente. Che è assurdamente condannato dai suoi avversari a essere ritenuto colpevole anche in caso di assoluzione. Non parliamo poi della prescrizione, che quando tocca a Berlusconi diventa non la chiusura di un processo per decorrenza dei tempi richiesti dalla legge per perseguire un presunto reato, come avviene per un imputato comune, ma una specie di aggravante di una sentenza di condanna bloccata con l'inganno nella canna del fucile del giudice di turno. Le condizioni di sofferenza di Berlusconi, per tornare alle parole di Frattini, sono fin troppo evidenti per essere decentemente negate, o peggio ancora derise, anche da chi gli dichiarò una guerra spietata nel 1994, all'indomani della sua prima vittoria elettorale. Che ebbe il solo torto, come abbiamo più volte ricordato e vale la pena ribadire ogni volta che se ne ha l'occasione, di guastare la festa ad una sinistra riuscita a liberarsi di avversari e concorrenti degli anni della cosiddetta Prima Repubblica con una micidiale miscela giudiziaria, mediatica e politica. Fatta di manette, avvisi di garanzia, processi, sputtanamenti e scioglimento anticipato delle Camere elette meno di due anni prima, per quanto esistessero ancora i numeri di una maggioranza per governare, con Carlo Azeglio Ciampi o un altro a Palazzo Chigi. Anche l'ossessione lamentata, o denunciata, da Bersani è difficile da negare. Chiunque parli con Berlusconi, quando il discorso cade sui suoi processi, casualmente o di sua iniziativa, gliela legge negli occhi, sulla fronte, sulla pelle. L'ultima volta che mi capitò, rimanendone molto colpito, fu nella buvette della Camera il 14 dicembre scorso. Che pure era un giorno politicamente felice per lui, quello in cui il presidente del Consiglio scampò al tiro della sfiducia sparatogli a Montecitorio dalle opposizioni con le polveri fornite addirittura dal presidente dell'assemblea. E non era ancora esplosa- pensate un po' - con la sua iscrizione nel registro ambrosiano degli indagati, e poi con il rinvio a giudizio con rito cosiddetto immediato, la bomba del processo chiamato ormai Ruby. In quella occasione, fra un tramezzino e un supplì, egli mi confidò stanchezza e amarezza per le "infamie" rovesciategli addosso dagli avversari politici e dai soliti pubblici ministeri. Ebbene l'ossessione di Berlusconi è l'effetto, non la causa, di un'altra ossessione: quella degli avversari e dei magistrati che lo tengono sotto tiro da quando si sono sentiti assurdamente sfidati dalla sua decisione di darsi alla politica e- cosa ancora più grave, per loro addirittura inaudita- di portare avanti in Parlamento un progetto di riforma anche della giustizia. Che fu pure il proposito abortito della commissione bicamerale presieduta fra il 1997 e il 1998 da Massimo D'Alema, accusata con tutto il Parlamento da un pubblico ministero in servizio a Milano di lavorare "sotto ricatto". Quel magistrato naturalmente rimase tranquillo al suo posto, protetto da quel paracarro che é diventato anche per le toghe più disinvolte il Consiglio Superiore della Magistratura. Dove, per esempio, dubito che riusciranno nei prossimi giorni a prendere o solo ipotizzare decisioni in qualche modo penalizzanti per quegli inquirenti che in Sicilia, prima di decidersi a farlo finalmente arrestare, hanno reso di un personaggio inaffidabile come Massimo Ciancimino un'icona dell'antimafia. Con tanto di porte spalancate dei soliti salotti televisivi. Le due ossessioni, di Berlusconi e dei suoi avversari, togati e laici, sono ormai le facce di una stessa medaglia, o moneta. Nel momento, vicino o ancora lontano, in cui cadrà quella del Cavaliere, che francamente, anche a causa dei suoi errori, appare più logorata dalla campagna elettorale appena conclusa, e più direttamente esposta ai rischi di un cattivo risultato dei candidati del centrodestra nei ballottaggi di oggi e domani a Milano e a Napoli, cadrà o si avvierà a cadere anche l'altra. La moneta fatta di berlusconismo e antiberlusconismo è destinata insomma a finire fuori corso. Non avrà mercato neppure per i numismatici. È fatta proprio di antiberlusconismo, a prescindere dai limiti obbiettivi che certamente non mancano né a Letizia Moratti a Milano né a Gianni Lettieri a Napoli, le coalizioni di cui Bersani ha prenotato il successo al ballottaggio con una sicurezza al limite anche dell'imprudenza e della scaramanzia. Non ha capito, poveretto, che se sarà veramente vittoria per Giuliano Pisapia sotto la Madonnina e per Luigi de Magistris sotto il Vesuvio, egli ballerà solo per un'altra estate perché anche lui rimarrà vittima del massimalismo politico che ha innescato o reimportato nel suo partito. Eppure egli aveva mostrato di volerlo bandire opponendosi alla conferma di Dario Franceschini alla segreteria, una volta archiviata la contraddittoria esperienza di Walter Veltroni. Che cominciò con la rinuncia all'alleanza con i Bertinotti, Cossutta, Diliberto, Vendola e Pecoraro Scanio di turno e finì nelle sabbie mobili dell'apparentamento elettorale con Antonio Di Pietro. Se diffida delle nostre previsioni, Bersani può consultare "la dissoluzione" della sua leadership preconizzata ieri da Luca Ricolfi sulla Stampa: un politologo e una testata non certamente prevenuti nei riguardi suoi e del suo partito.  

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