Il crac di Atene aiuta il Cavaliere
Il tabù è rotto. «Lo scenario di una uscita della Grecia dall'euro ormai è sul tavolo»: a dichiararlo non è stavolta qualche opinion maker, magari di scuola anglosassone. Lo ha invece scritto la commissaria europea per la pesca, Maria Damanaki, in un intervento che compare sulla homepage del suo sito personale. «Sono obbligata a parlare apertamente» aggiunge la Damanaki un trascorso nel partito comunista ellenico ed infine esponente del Pasok, il partito socialista del premier George Papandreu. Anzi, è stato proprio Papandreu, nel 2009, a designarla nella commissione di Bruxelles. «Abbiamo la responsabilità morale di guardare al dilemma con chiarezza: o troviamo un accordo con i creditori in modo che il nostro programma di duri sacrifici abbia risultati, oppure torniamo alla dracma» scrive questa rappresentante dell'establishment di Atene, con il doppio status di eurocommissaria e del Pasok. Come previsto il governo si è precipitato a smentire: «Il futuro della Grecia è soltanto nel quadro dell'euro e non c'è alcuna discussione riguardo ad un'eventuale uscita dalla moneta unica» ha affermato il portavoce di Papandreu, Georges Petalotis. Vedremo. Maria Damanaki ha precisato che il suo vuole essere un appello ad accettare le misure di rigore che stanno paralizzando settori come i trasporti, mettendo a rischio il turismo, maggior risorsa del paese, proprio alla vigilia delle vacanze. Mentre la questione Grecia continua a terremotare l'Europa, minando i mercati finanziari e la solidità dell'euro. I Cds, i certificati di assicurazione contro il default della Grecia, hanno raggiunto ieri il record di 1.440 punti, considerati tecnicamente in area insolvenza. Mentre i titoli di stato a cinque anni continuano ad essere collocati con rendimenti intorno al 16 per cento, livelli da Argentina anni Novanta. Solo che siamo nell'euro, e l'Europa continua a farsi garante dell'impossibilità che la Grecia fallisca. La realtà è che a monte di tutto c'è la pesante esposizione delle banche francesi e tedesche (più le prime delle seconde, in questo caso), valutata intorno a 100 miliardi di euro. Una situazione che sembra fatta apposta per premiare la speculazione. Né pare decollare il nuovo piano di austerity del governo socialista, che prevede ulteriori tagli alla spesa e privatizzazioni per 50 miliardi, in aggiunta alle riduzioni di personale pubblico già annunciate, alla privatizzazione di settori chiave come le telecomunicazioni, l'acqua, i trasporti marittimi, la compagnia telefonica Ote, la Post Bank e una serie di porti, tra i quali il Pireo. Spettatori non disinteressati di questa partita, oltre agli speculatori, sono i governi dei Brics, le economie ormai emerse. La Cina ha già stretto accordi economici con Atene, e ha investito ingenti somme proprio nel porto del Pireo. Pechino è anche interessata ad entrare nelle telecomunicazioni e nei trasporti. Ma non può comprare titoli pubblici greci, come invece ha fatto per gli Usa – e, si è scoperto, anche per l'Italia – perché il rischio default è troppo elevato. Inoltre c'è un altro problema: la Grecia fa parte della Nato, ed è assai complicato che la seconda potenza mondiale, in aperta competizione strategica ed economica con gli Usa, possa mettere piede così pesantemente nel Mediterraneo. Questi sono però scenari strategici e medio termine. Nell'immediato è sempre più complicato per l'Europa non fare nulla, anzi quasi negare che esista un problema di insolvenza. Perfino la soluzione intermedia, la ristrutturazione del debito, con l'allungamento delle scadenze e la riduzione degli interessi, viene bocciata, stavolta dalla Bce, che teme di dare un segnale negativo per le obbligazioni comprate dagli altri paesi a rischio, Portogallo e Irlanda su tutti. Ora che però il tabù è rotto, difficilmente le autorità europee potranno continuare a procedere senza almeno un piano B. La Grecia potrebbe uscire dall'euro, e a quel punto è molto probabile che qualche altro paese rischierebbe di seguirla. Il Portogallo è in cima alla lista. L'Irlanda al secondo posto. In questo caso quale scenario si aprirebbe? E quali conseguenze per l'Italia? Le ipotesi sono due: o la creazione di un super-euro, una moneta di serie A, limitata in pratica a Germania, Francia, Olanda e pochi altri (il Belgio non è affatto messo meglio di noi, privo di governo da oltre un anno); oppure una forte stretta di freni per il nucleo storico dell'eurozona, Italia compresa. In questo caso l'outlook pubblicato sabato scorso da Standard & Poor's, che poneva al centro la stabilità politica del nostro paese, meriterebbe una lettura più attenta. Nessun governo può affrontare una nuova burrasca dell'euro, che stavolta sfiorerebbe forza dieci, senza un governo stabile. Potrebbe costituire un aiuto indiretto per il Cavaliere e per i due anni di governo che lo attendono, indipendentemente dal risultato dei ballottaggi che a quel punto sarebbero poca cosa. Naturalmente questa stabilità avrebbe un prezzo: adottare pari pari la linea di rigore di Giulio Tremonti, e togliersi tutti gli altri grilli dalla testa. Per l'oggi e per il futuro. Magari, domani, proprio con Tremonti a palazzo Chigi. Del resto la scadenza naturale delle elezioni è nel 2013; e qualunque governo, perfino una sinistra tendenza Vendola, sarebbe obbligato a adeguarsi alla dura lezione di Atene.