Quel che sfugge al centrodestra
È davvero incredibile quello che sta succedendo in questo ultimo scorcio di campagna elettorale prima del ballottaggio di domenica prossima. Si ha l’impressione che Pdl e Lega siano caduti preda di una sindrome di autodistruzione che rischia di portarli non già a una pur difficile, ma non impossibile rimonta, ma a una sconfitta bruciante che potrebbe rivelarsi irrimediabile. Se c’è una possibilità, per il centrodestra, di recuperare consensi, questa possibilità passa attraverso il tentativo di convincere le decine di migliaia di milanesi, già elettori del Pdl e della Lega, che hanno scelto la strada dell’astensione. Per rendere operativa questa possibilità sarebbe necessario interrogarsi sui motivi che hanno provocato la defezione e parlare dei problemi reali e concreti del governo cittadino, criticando le proposte (o, meglio, le non proposte) politiche dello schieramento avverso e offrendo all’elettore "offerte politiche" concrete, ragionevoli e non demagogiche. La strada imboccata dal centrodestra è, invece, tutt’altra. Lo è, in primo luogo, per quanto riguarda lo "stile" del confronto e per quanto riguarda i "temi". Sotto il primo profilo, infatti, gli interventi televisivi di Berlusconi e il linguaggio colorito e, a dir poco, sguaiato di Bossi non sono, certo, un esempio di equilibrio e di saggezza politica. E ciò, sia detto subito e senza mezzi termini, indipendentemente dalle buone ragioni che il centrodestra potrebbe invocare di fronte a un assalto mediatico, volgare e senza esclusione di colpi, da tempo in atto nei confronti del premier e di tutta la coalizione. Sotto il secondo profilo, poi, le proposte politiche delle quali si è sentito parlare troppo assomigliano a provvedimenti, più o meno realizzabili, che evocano una bassa demagogia da paese sudamericano. L’ipotesi di una sanatoria sulle multe - e non è ancora ben chiaro di quali multe si tratti - è una prospettiva che può far piacere a qualcuno, ma che, certo, non brilla per ossequio alla legalità, al principio della eguaglianza di fronte alla legge e, quindi, anche alle infrazioni della legge né al principio che i danari pubblici - ché tali sono gli introiti, non incassati ancora, delle multe - possano essere disinvoltamente "utilizzati" per ottenere un vantaggio elettorale. Il discorso, poi, di Bossi e dei leghisti, sull’altra ipotesi in discussione, quella dello spostamento da Roma, di alcuni ministeri è un discorso che non sta né in cielo né in terra. È più rivolto alla pancia che alla testa di alcuni segmenti dell’universo leghista, quelli che rimpiangono con nostalgia il carattere di "partito di lotta", prima che di governo, della Lega con tutto il suo più vieto armamentario di pulsioni anticentraliste, antiunitarie se non, addirittura, separatiste. È un ritorno al passato, nei toni oltre che nel linguaggio e nello stile, che si scontra con una esigenza profondamente sentita, quella della semplificazione burocratica e della riduzione dei costi della politica. È di tutta evidenza, infatti, che l’ipotesi del trasferimento di alcuni ministeri o - secondo la più morbida versione del presidente del Consiglio - di alcuni dipartimenti ministeriali finirebbe, fatalmente, per moltiplicare le poltrone e far lievitare i costi. E tutto ciò, a prescindere da ogni pur necessaria considerazione di natura politica e da ogni valutazione di legittimità costituzionale del progetto. Mi posso sbagliare. E, anzi, spero di sbagliarmi. Ma il fatto stesso che siano state avanzate proposte del genere, in maniera del tutto acritica, dimostra che i leader del centrodestra non si sono resi conto che il malessere del loro popolo è un malessere profondo. Un malessere che non può essere curato con dei palliativi ma deve essere diagnosticato con cura e affrontato con grande energia. È un malessere - questa è la vera indicazione del voto (e, in particolare, del non voto) espresso al primo turno della tornata elettorale - che denuncia delusione nei confronti dell’azione governativa, a livello locale come a livello nazionale, e, soprattutto, indica una progressiva perdita di fiducia nella capacità della leadership del centrodestra di farsi portavoce dei problemi reali dei cittadini e di rappresentare, davvero, il nuovo. Intendiamoci. I risultati elettorali che hanno mandato in tilt Berlusconi e Bossi non sono, con molta probabilità, il frutto di una deliberata volontà di radicale cambiamento nell’indirizzo politico del paese, a livello locale e nazionale. Non sono, in altre parole, l’espressione di un passaggio "a sinistra", soprattutto a questa sinistra impresentabile, piena di contraddizioni e divisa tra pulsioni giustizialiste, vocazioni barricadiere, illusioni egalitarie e qualche timida suggestione riformista. Sono, piuttosto, un segnale - l’unico che il popolo di centrodestra sia in grado di fare - alla necessità di recuperare i valori, le speranze, le idee che avevano ispirato, in un ormai lontano 1994, la discesa in campo di Berlusconi e il sogno di costruire una società fondata si principi e sulla prassi della moderna liberaldemocrazia. In fondo, nei quasi due decenni berlusconiani, poche cose sono state realizzate della promessa e sognata "rivoluzione liberale" il cui vento cominciò a soffiare con forza all’indomani della fine della prima repubblica: non la riforma fiscale, per fare un solo esempio, sentita come una necessità dal popolo delle partite Iva e, più in generale, dall’intero paese. Dalle urne di metà maggio era giunto questo messaggio: recuperare lo spirito del 1994. Solo muovendosi in tale direzione, e non già in quella della ricerca di espedienti demagogici di basso profilo, sarebbe possibile ribaltare la situazione. Non sembra, purtroppo, che questa strada sia stata imboccata. E il pericolo vero non è soltanto quello della fine di Berlusconi e dell’implosione del centrodestra, ma anche quello del tracollo dell’aspirazione a poter realizzare una società liberale e democratica. E, bisogna aggiungere, quello della apertura di uno scenario dai risvolti e dalle prospettive imponderabili: lo scenario di un salto nel buio. Perché, se Berlusconi e il centrodestra perderanno, non avrà certo un futuro il centrosinistra ridotto a ectoplasma di contorno della sinistra giacobina, radicale, anarcoide, a ruota di scorta, insomma, dell’estremismo di giustizialisti e rivoluzionari in doppio petto. E meno che mai avrà un futuro - tanto più che per esso non c’è stato né passato né presente - il fantomatico terzo polo.