Troppe parole e poca visione
La cultura della televisione non equivale alla diffusione della cultura in tv. È un'altra cosa che si incarna nel linguaggio proprio del mezzo, il vedere da lontano, con una sua grammatica, un suo linguaggio, una propria semantica. Per questo il programma «... Ci tocca anche Sgarbi», di Vittorio Sgarbi, 8,28% di share con 2.063.899 di spettatori, già sospeso dalla Rai dopo la prima puntata di mercoledì sera, ci è parso il programma di un analfabeta televisivo. Nelle orazioni di Sgarbi, in prima serata su Raiuno, è andato in audiovideo uno iato spropositato, incolmabile, tra i contenuti parlati dal critico d'arte ed il linguaggio visionario della televisione. Per intenderci, un errore da matita rossa, come la frase «ieri o mangiato» scritta senza l'acca davanti alla -o che le maestre segnano a memento per i bambini che sbagliano, nella fatica di insegnargli l'italiano. Sgarbi è caduto nell'inciampo di confondere i linguaggi – troppe parole e poca visione – perché il parlare in televisione di grandi autori e di libri, il citarli, il portare il teatro in tv non vuol dire fare cultura in televisione. Si tratta di un'equivalenza sbagliata. Il fallimento del programma di Sgarbi – esageratamente autoreferenziale – è dunque, prima di tutto, di grammatica televisiva. Il monologo del giornalista Carlo Vulpio con alle sue spalle le immagini delle pale eoliche e di un volatile che ci sbatte contro, ferendosi a morte, non emoziona, è freddo, e le immagini che scorrono non scuotono chi le guarda perché non sono drammatiche, e non c'entra l'importanza (o no) del tema affrontato. È poi – la sospensione di «... Ci tocca anche Sgarbi» – la presa d'atto di un fallimento di liturgia televisiva e di controprogrammazione culturale, intendendo con questa definizione i tentativi di fare programmi televisivi alternativi e concorrenti ai programmi, seguitissimi, dei Michele Santoro, dei Fabio Fazio e dei Giovanni Floris. La liturgia – mancando la scaletta ed il linguaggio tv – nella trasmissione di mercoledì era completamente assente e con lei lo erano il pathos ed il ritmo. Per la controprogrammazione invece, il ragionamento da fare è più ampio. In un'intervista a «Sorrisi & canzoni» del dicembre 2010, parlando della futura trasmissione, Sgarbi aveva detto: «Sarà un programma sui valori. È nato dopo l'ottimo risultato della trasmissione di Fazio e Saviano, che hanno dimostrato che in tv c'è spazio per parlare anche più di 20 minuti. Hanno detto: "Se qualcuno ha qualcosa da dire si faccia avanti". Beh, eccomi». Sempre in dicembre, l'Ansa titolava: Sgarbi: «Io come Saviano, cerco un Fazio (ndr, Fabio)». Oggi possiamo dire che il Fazio Due non è stato trovato e che Sgarbi, nei monologhi tv del suo «...Ci tocca anche Sgarbi», non ha funzionato. A differenza di Saviano, che nelle puntate di Vieni via con me (andate in onda su Raitre, a novembre) funzionava - in termini televisivi - eccome. Basta riguardarsi i dati d'ascolto. Prima puntata, 8 novembre 2010: 25,48% di share, con 7milioni e 622.677 spettatori. Seconda puntata, 15 novembre: 30,21% con 9 milioni e 31.904 spettatori. Terza puntata, 22 novembre: 31,60% di share con 9.670.686 spettatori. Quarta ed ultima puntata, 29 novembre: 29,17% di share con 8.668.972 spettatori. Numeri, quelli della coppia Fazio-Saviano, da prima serata di Raiuno e non di Raitre, senza nulla togliere a quest'ultima. In queste cifre troviamo il fallimento della controprogrammazione culturale (a Fazio, Saviano e gli altri) ed un interrogativo: non sarà che i veri sondaggi sugli umori e l'orientamento politico degli italiani, nel Belpaese del 2011, sono incarnati e rappresentati dai dati dell'Auditel più che dalle rilevazioni dei vari Istituti? Volano gli ascolti di Annozero, di Ballarò, di Vieni via con me ma non quelli di Vittorio Sgarbi. Fare 2 milioni di spettatori su Raiuno, con un programma brutto, significa di certo un rifiuto estetico ma anche, ci viene il sospetto, culturale e politico, un sintomo della stanchezza del berlusconismo che si evidenzia, per contrappasso, proprio attraverso il pubblico della televisione. Chissà che nell'incapacità dell'area culturale di centrodestra di cercare e trovare uno o più conduttori ed autori di talento – scremandoli soltanto in base al merito ed alla conoscenza, alla capacità di fare televisione – in grado di dar vita ad un linguaggio televisivo innovativo ed a programmi con un certo seguito di pubblico, non si trascini pure – di riflesso – la crisi di narrazione del berlusconismo degli ultimi tempi. Ai ballottaggi l'ultima parola.