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Bossi: andare a fondo proprio no

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Umberto Bossi

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L'Umberto è un fiume in piena. Gli sono serviti due giorni per metabolizzare il fallimento elettorale a Milano ma poi, ieri, si è sfogato. Due giorni durante i quali ha chiamato a raccolta i suoi fedelissimi per stabilire una terapia d'urto per vincere i ballottaggi e arginare una débâcle che agli occhi della «base» leghista sembra ormai inevitabile. E così ecco che la nuova strategia del Carroccio passa per quattro parole chiave: rassicurare, ammettere, minacciare e promettere. Quattro impegni racchiusi in altrettante frasi ad effetto che Bossi ha voluto lasciare ai giornalisti facendo cadere quel muro del silenzio che si era imposto. Il primo punto così diventa quello di far trasparire che tutto va bene. «Al ballottaggio non ci sono rischi». Bossi, nonostante le percentuali dicano il contrario, vuole dimostrarsi ottimista. Un sentimento che però divide i leghisti. Da una parte, infatti, c'è chi condivide la sicurezza del «Capo» ricordando che anche nel 2006, quando la Moratti vinse al primo turno, il candidato della sinistra, Bruno Ferrante, prese il 47 per cento dei voti, ovvero un solo punto percentuale in meno dell'attuale Pisapia: «Quelli sono i voti della sinistra a Milano. Alla Moratti ora basterà andare alla ricerca dei consensi di quelle persone, anche leghiste, che al primo turno non sono andati a votare perché avevano visto trasformare un voto amministrativo in un referendum su Berlusconi». Eppure non tutti la pensano così. Basta infatti ascoltare l'altra parte del Carroccio per capire che la vittoria della Moratti non è così ovvia: «Noi lo avevamo detto che Milano è stanca del suo sindaco. Berlusconi doveva chiederle di fare un passo indietro e proporre una candidatura alternativa. Non ci ha ascoltato e ora ne paghiamo le conseguenze. La nostra gente non è andata a votare e temiamo che questo accadrà anche il 29 maggio». Un rischio che Bossi tenta di scongiurare ed è per questo che, per onestà nei confronti del proprio elettorato, ammette la sconfitta: «A Milano? Abbiamo perso». Il Senatùr sa che alla sua gente piace sentirsi dire la verità ed ecco che lui fa una sorta di «mea culpa». Una presa d'atto che però richiama alla mente una dura dichiarazione del Senatùr dello scorso 29 aprile quando disse: «Se perdiamo Milano è Berlusconi che perde». Un avviso di sfratto che ha anticipato l'ennesima stoccata di ieri del Senatùr al Popolo della Libertà: «Di certo non ci faremo trascinare a fondo» dal Pdl. L'avvertimento è chiaro: la Lega non ha alcuna intenzione di finire sotto il pelo dell'acqua, magari attaccata a un macigno. Ed è sempre ascoltando lo sfogo di alcuni parlamentari leghisti che si capisce quanto il malcontento serpeggi: «Bossi si è stancato di continuare a dimostrare fedeltà a Berlusconi e vedere che lui prende decisioni importanti per l'Italia in modo autonomo. Il caso della Libia con l'accordo chiuso dal premier sui bombardamenti è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Si è rotto quel rapporto di fiducia che negli ultimi dieci anni ha legato i due leader e ora Bossi presenta il conto. La campagna elettorale della Moratti, caratterizzata da offese all'avversario che Bossi commentò con «non l'avrei fatto, quelle cose non portano voti», non gli è piaciuta. La decisione del premier di allargare il governo con nove nuovi sottosegretari per ripagare i Responsabili artefici del salvataggio del governo lo scorso 14 dicembre l'ha accettata tappandosi il naso e ora ha detto basta. Deve tornare in breve tempo a dimostrare alla sua gente che la Lega, nonostante sia forza di governo, non rinuncia alla propria identità e, soprattutto, deve dare risposte alla sua «base» che non prese bene la notizia del voto favorevole dei leghisti al legittimo impedimento in cambio di una accelerata sul percorso dei decreti attuativi sul federalismo fiscale. Ed è proprio questa riforma «epocale» una delle motivazioni che potrebbe aver spinto Bossi a voler chiudere la sua breve chiacchierata con i giornalisti a Montecitorio con una promessa: «Non fatevi illusioni», il risultato di Milano non è determinante per la tenuta del governo. Comunque vada nel capoluogo meneghino, quindi, non dovrebbe succedere nulla ma sono ancora i leghisti a interpretare le parole del «Capo» alla luce dei prossimi appuntamenti parlamentari: «A breve scadono i termini della legge delega sul federalismo fiscale - spiega un deputato del Carroccio - e il ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli, ha già chiesto una proroga per far slittare il termine di sei mesi. Con questo si dovrebbe arrivare a fine ottobre. Una volta completato l'iter sul federalismo, se Berlusconi non darà dimostrazione di cambiare atteggiamento, Bossi potrebbe decidere di sfilarsi. Una decisione non facile da prendere soprattutto perché, al momento, non c'è alcuna alternativa valida al Cav che permetta di governare il Paese. Neppure Montezemolo. La Lega non sosterrà mai un candidato premier come lui. Il nostro elettorato lo vede come simbolo di un'elite che non ci rappresenta. Non lo voterebbe mai». Intanto i rapporti con il presidente del Consiglio rimangono freddi. E solo una telefonata ieri sera tra Bossi e il premier preannuncia un incontro per stamattina a margine del Consiglio dei ministri. L'occasione giusta per un primo faccia a faccia.

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