Giorgio, Romano, Eugenio e il Pd
Anche le trasferte, come dimostrano le notizie giunte ieri da Gerusalemme, aiutano Giorgio Napolitano a far crescere quel tesoretto, o tesoro vero e proprio, di credito morale e politico che i suoi amici e compagni in Italia, da Emanuele Macaluso a Rino Formica, da Marco Pannella a Massimo Teodori, vorrebbero vedere investire fra due anni, alla scadenza del mandato di presidente della Repubblica, nella ricostruzione della sinistra. O, in alternativa, in una sua rielezione al Quirinale, dove però si aspettano che egli possa e voglia stimolare e sostenere altri a compiere la stessa impresa. «Uno statista fuori dal comune, profondo, onesto e di buona volontà... un’autorità morale che non può essere sconfitta», ha detto di Napolitano il suo omologo e quasi coetaneo presidente israeliano Shimon Peres in una conferenza stampa congiunta, dopo un incontro ovviamente molto cordiale, conoscendosi e apprezzandosi reciprocamente da tempo. Anche i loro rapporti personali e politici finirono per risultare rafforzati dopo il crollo del muro di Berlino, quando il Pds ormai ex Pci, di cui Napolitano era un dirigente, riuscì a rimuovere i veti e le diffidenze del Psi guidato da Bettino Craxi e ad ottenere l’ammissione all’Internazionale Socialista, dove c’era naturalmente il partito laburista israeliano di Peres. I due amici e compagni politici sono ora accomunati anche dal fatto, che hanno voluto ieri sottolineare compiacendosene reciprocamente, di essere capi di Stato «senza poteri esecutivi» ma ugualmente impegnati a fare «quel che possiamo per cercare di risolvere i problemi al meglio». In verità, entrambi si sono formalmente riferiti ai problemi «fra i due Paesi» di cui sono presidenti, ma che hanno già «relazioni eccellenti». Ci vuol poco quindi a migliorarle ancora, per cui non è arbitrario pensare che essi volessero riferirsi anche ai loro problemi di politica interna. Che sono quelli che premono di più agli amici e compagni italiani di Napolitano per le ragioni che abbiamo ricordato all’inizio, accennando alle ipotesi di un suo impegno per la ricostruzione della sinistra dopo la conclusione del mandato presidenziale, o di una sua rielezione. La quale in Italia, per quanto la Costituzione non contempli il divieto di rieleggibilità immediata, costituirebbe un’assoluta novità. Nessun presidente della Repubblica infatti è riuscito a raddoppiare il suo mandato settennale, che abbia cercato o no di ottenerlo dal Parlamento. Preoccupazioni per le condizioni della sinistra italiana, forse analoghe a quelle avvertite dagli amici e compagni più vicini a Napolitano, sono state attribuite ieri dal giornale La Repubblica anche all’ex presidente del Consiglio Romano Prodi. Che vorrebbe vedere «gli eredi dell’Ulivo», la sua prima creatura politica poi trasformata nell’altrettanto sfortunata Unione, meno impegnati a «litigare fra di loro» e più convinti invece della necessità di creare una vera alternativa al centrodestra. Della quale Napolitano in persona ha voluto recentemente ricordare le condizioni per essere realistica parlandone, in un convegno dedicato al compianto amico e compagno Antonio Giolitti, con il fondatore proprio de La Repubblica, Eugenio Scalfari. Quelle condizioni, mutuate dalle riflessioni dello stesso Giolitti, sono, fra le altre, la chiarezza e la gradualità tipica del riformismo: un termine, quest’ultimo, che invece procura ancora l’orticaria alle componenti massimaliste della sinistra. Che sono le stesse con le quali il Pd di Pier Luigi Bersani, fra le riserve e le proteste di Walter Veltroni e di una parte almeno della componente di provenienza democristana, è tornato a perseguire un’alleanza elettorale e politica per il solito, confuso cartello antiberlusconiano. Ad esso Bersani peraltro pensa di poter convincere prima o poi ad aderire anche il terzo polo di Pier Ferdinando Casini, liquidando come «schizzinose» le resistenze o i rifiuti oppostigli sinora dal leader dell’Udc. Che sa bene, più comunque di certi esponenti del partito di Gianfranco Fini, affluito con quello di Francesco Rutelli nel progetto del terzo polo, quanti voti si perderebbe per strada se partecipasse ad un’alleanza, fra gli altri, con Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. Di quel confronto avuto con Napolitano al convegno su Giolitti, nello stesso giorno in cui alla Camera l’opposizione si divideva in tre mozioni sulla crisi libica e il Pd rifiutava per partito preso di votare con la maggioranza per la partecipazione italiana ai bombardamenti della Nato, condivisa invece dal presidente della Repubblica, Scalfari ha mostrato ieri di non ricordarsi nella parte del suo consueto editoriale della domenica riguardante proprio il capo dello Stato. In particolare, il fondatore de La Repubblica, dopo avere scomodato persino il duca di La Rochefoucauld, del 1657, per tornare ad accusare Silvio Berlusconi di «egolatria, megalomania» ed altro ancora, ha voluto praticamente attribuire la grande popolarità di cui gode il presidente della Repubblica al confronto che la gente farebbe tra lui e il presidente del Consiglio. Il quale, per quanto votato da milioni di italiani e provvisto di una maggioranza parlamentare, sarebbe una specie di male assoluto, contro il bene assoluto degnamente rappresentato da Napolitano. Ma l’apprezzamento dei cittadini per il presidente della Repubblica è cresciuto, come dimostrano i sondaggi, da quando è risultata ancora più netta e chiara la sua insoddisfazione per come si muove l’opposizione, a cominciare naturalmente dal maggiore partito che la compone, il Pd. Al quale era probabilmente rivolto anche il richiamo che Napolitano ha fatto ieri da Israele sulla necessità di riforme in Italia: le stesse di cui Bersani e compagnia bella si rifiutano di discutere con l’odiato Cavaliere. O si offrono di farlo solo a quelle parti - la Lega - o a quegli esponenti della maggioranza e dello stesso governo - il ministro Giulio Tremonti - disposti a scaricare il presidente del Consiglio, colpevole anche di resistere agli assalti giudiziari.