Cosa c'è dietro un candidato

È inutile mettersi a disquisire di bon ton: le campagne elettorali sono contese dure per gente dura. Chi aspira al minuetto e non al corpo a corpo è pregato di astenersi. Funziona così in tutti i Paesi e questo è frutto della comunicazione e dell’importanza del leader rispetto al partito. Fanno sorridere i parrucconi che strillano per i colpi bassi, fanno riflettere invece i comizietti senza contraddittorio delle penne della sinistra che da anni sparano ad alzo zero su Berlusconi, hanno introdotto la spiata del buco della serratura della camera da letto, coniato i peggiori aggettivi per gli avversari e ora strillano come signorine per le ruvidezze della campagna elettorale. Letizia Moratti ha compiuto due errori: il primo è che ha dato una notizia incompleta di un procedimento penale (cosa tra l’altro che fanno tutti giorni i fogli anti-Cav quando riportano stralci dell’accusa senza mai ricordare l'esito finale dei processi); il secondo - quello davvero grave - è che non ha dato una lettura politica alla storia di Pisapia. Il sindaco uscente del Pdl avrebbe dovuto ricordare con puntualità uno scenario ben più serio del furtarello di un’auto di cui Pisapia non aveva bisogno visto che proviene da una ricca famiglia borghese di Milano. La vera storia in realtà è quella di una parte della borghesia progressista della città ambrosiana che cinguettava con i terroristi. Un fenomeno fin troppo poco indagato sul quale è calato un silenzio (quasi) generale. Mentre Walter Tobagi veniva ammazzato, editori, giornalisti, magistrati e avvocati del giro buono di Milano coccolavano gli adepti della P38. Mentre Indro Montanelli veniva gambizzato, il Corriere della Sera dava la notizia omettendo il nome della vittima. Mentre le «sedicenti br» ammazzavano, le famiglie illuminate si divertivano a fare la rivoluzione in boiserie e i rampolli degli imperi editoriali del progressismo piazzavano bombe sotto i tralicci lasciandoci le penne (leggere alla voce enciclopedica Feltrinelli). La vera domanda da porsi è dunque un’altra: Pisapia in quale brodo culturale è cresciuto? Ha avuto o no contatti con sagome poco raccomandabili, personaggi poi finiti nella lotta armata? Sono domande che io avrei posto tranquillamente a Pisapia in un confronto televisivo. Ma nessuno l’ha fatto e questo la dice lunga sul conformismo culturale. In America un signore come Pisapia avrebbe avuto serissime difficoltà a sostenere un confronto con la stampa e l’opinione pubblica. Bisognerebbe ricordare la storia dei cacciatori di fascisti che andavano a fare le loro battute al grido di "Hazet 36 fascista dove sei?". Sapete cosa è l’Hazet 36? La chiave a stella che spappolò la testa di Sergio Ramelli a Milano. Pisapia non è un ladro, ci mancherebbe. Ma non può pretendere che in campagna elettorale si metta il silenziatore sul suo passato, le sue idee radicali, le sue amicizie più o meno pericolose. Quando è cominciata la battaglia più cruenta contro Berlusconi e il centrodestra, ormai un paio di anni fa, avvisai e scrissi che l’introduzione del metodo della character assassination nel giornalismo per far secco il Cavaliere avrebbe rappresentato un punto di non ritorno per tutti. Ci siamo. Chi ha seminato vento, sta raccogliendo tempesta.