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Ecco come salvare l'economia

Luca Cordero di Montezemolo

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«Non c'è alternativa», lo disse trent'anni fa Margaret Thatcher agli inglesi ed è valido oggi per gli italiani. I conti vanno tenuti in ordine non solo perché ce lo impone l'Europa, ma anche e sopratutto perché una rigorosa disciplina di bilancio è la premessa necessaria (ma non sufficiente) per crescere. E siccome il rigore non si può raggiungere attraverso nuove tasse rimangono solo due strade, che vanno però percorse insieme: crescita e tagli alla spesa. Il Documento di economia e finanza 2011 presentato dal Governo prevede un taglio del 7% della spesa pubblica concentrato nel 2013 e 2014, cioè quando questo Governo non ci sarà più. Un fatto che la dice lunga sulla fiducia del Governo in se stesso. Ma come si pensa di fare, sul fronte della spesa pubblica, nel prossimo quadriennio ciò che non si è mai fatto nel recente passato? Non si cerchi la risposta nel recente Documento di economia e finanza 2011: non c'è. Né la si cerchi nell'allegato Programma nazionale di riforma: anche lì manca. La domanda però rimane e sarebbe opportuno riflettere sulla risposta per tempo, in maniera da evitare di dover nuovamente ricorrere alle soluzioni dell'ultima ora: tagli lineari, interventi tanto improponibili da essere prima o poi revocati, rinvii dei pagamenti, etc. Non possiamo più permetterci un modo di procedere che colpisce indiscriminatamente tutti i capitoli di spesa (tranne ovviamente quelli riferiti ai costi della politica). Purtroppo o per fortuna è finito il tempo degli esercizi di ragioneria ed è arrivato il tempo delle scelte politiche. L'esigenza di tagliare e la necessità di crescere impongono un ripensamento complessivo del ruolo (e del peso) dello Stato in Italia nel prossimo futuro. Dobbiamo cogliere questa occasione per domandarci quale vogliamo che sia il perimetro della presenza pubblica nel nostro paese. Cominciando con il distinguere all'interno della spesa pubblica primaria corrente (al netto della previdenza che deve trovare nella contribuzione sociale la propria fonte di finanziamento) due grandi categorie di spese. Da una parte le voci di spesa corrispondenti alle funzioni per le quali è indispensabile che lo Stato esista (il «core business dello Stato») e che la stessa Costituzione pone alla base del contratto tra Stato e cittadini: la difesa e l'ordine pubblico, la giustizia, l'istruzione e la ricerca, la sanità, l'assistenza, la tutela del patrimonio culturale. Per queste voci di spesa, ogni sforzo dovrà essere fatto per impedire gli sprechi e per rendere la spesa efficiente ed efficace ma, al tempo stesso, non un euro dovrà mancare a quanto necessario perché venga reso ai cittadini italiani un servizio corrispondente alle imposte che chiediamo loro di pagare. Perché gli italiani vedono, giustamente, in quelle imposte il corrispettivo di quei servizi e pretendono che questi ultimi siano adeguati in termini tanto di qualità quanto di quantità. Perché sanno bene, fra l'altro, che quando quei servizi non vengono resi, dovranno essere acquistati, se possibile, sul mercato (sotto forma di arbitrati, di vigilanza privata, di sanità privata, di istruzione privata) con il risultato di pagare due e prendere uno (se va bene). Dall'altra parte stanno tutte le altre voci di spesa. Dal funzionamento degli organi costituzionali e, più in generale, del sistema politico in senso lato (il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro è un buon esempio) e dei livelli di governo (le provincie ad esempio), ai trasferimenti alle imprese, alle tante voci non corrispondenti a funzioni non costituzionalmente garantite. Euro più euro meno, un quinto circa dell'intero volume della spesa pubblica (al netto degli interessi e della componente in conto capitale già ridotta al lumicino). Per queste voci di spesa il principio non può che essere uno solo: quello dello zero-based budgeting e cioè della messa in discussione delle voci di spesa stesse e non già solo delle loro variazioni marginali. Ed i vincoli solo due. Primo, laddove possibile, l'obbiettivo dovrebbe essere quello di sostituire alle erogazioni un minor carico fiscale (minori trasferimenti alle imprese e minori imposte sulle imprese, per esempio). Secondo: non dovrebbe essere possibile salvare un programma di spesa non essenziale perché «piccolo o marginale» in qualche senso. Le risorse che finanziano la spesa pubblica appartengono non alla classe politica ma agli italiani: ogni euro che fosse possibile restituire loro sotto forma di minore imposte presenti o di minore debito (e cioè di minori imposte future) dovrebbe - deve - essere loro restituito. Senza eccezioni. E senza indugi.  

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