Memoria corta e bizzarrie
Il presidente della Camera, che all'ombra della presentazione di un suo libro non si sta risparmiando di certo in questa campagna elettorale amministrativa, diversamente da quanto faceva prima di imboccare la strada della rottura con il Cavaliere, deve avere una strana, stranissima concezione della tranquillità. Oltre che della coerenza e, naturalmente, della neutralità o imparzialità, di solito richieste alle più alte cariche dello Stato. Egli se n'è uscito ieri con l'annuncio, parlando a Cagliari del solito Silvio Berlusconi, che "se ci sono processi in corso, si può continuare tranquillamente a governare perché non c'è alcun tipo d'impedimento". Capite? Tranquillamente. Un presidente del Consiglio in piena guerra libica, con un alleato di governo che apre un contenzioso politico sul tipo di partecipazione italiana alle operazioni della Nato, è costretto a trascorrere un'intera mattinata nel tribunale di Milano per uno dei tanti processi che lo riguardano, com'è accaduto lunedì scorso, e può essere ritenuto tranquillamente impegnato lo stesso nell'adempimento dei compiti assegnatigli dalla Costituzione. E così dovrebbe ritenersi per le successive udienze di quello stesso processo e degli altri confezionatigli dall'infaticabile Procura della Repubblica di Milano. Vi è compreso naturalmente anche quello con rito cosiddetto abbreviato per concussione, ma non si sa di chi, e per uso di una prostituta minorile, all'epoca dei fatti, che nega però di avere fatto sesso con lui. Assegnatagli d’ufficio la tranquillità, dall’alto del suo scranno istituzionale e di non so quale dizionario della lingua italiana, Fini è tornato a contestare a Berlusconi il diritto di protestare contro i magistrati dai quali si considera perseguitato. E, confondendo gli attacchi del Cavaliere a questi magistrati per attacchi a tutta intera la magistratura, e quindi anche a quella che fa in silenzio e bene il suo lavoro, lo accusa sofisticamente di «delegittimarla», a dispetto dei doveri derivanti dalla sua funzione istituzionale di presidente del Consiglio. Fa parte di questo affondo a Berlusconi anche il richiamo che Fini ha voluto fare ieri, anticipando la celebrazione odierna della «Giornata della memoria», dei 26 magistrati caduti sotto il fuoco del terrorismo e della mafia, come se anche loro potessero essere messi in qualche modo nel conto della presunta delegittimazione della magistratura da parte del presidente del Consiglio. Se questo del presidente della Camera è stato l’antipasto, figuriamoci che cosa dovremo o potremo aspettarci oggi, nelle cerimonie e nei discorsi programmati in onore delle vittime del terrorismo, a distanza precisa di 33 anni dall’assassinio di Aldo Moro. Nel quale speriamo che a nessun pentito venga in mente, o venga suggerito, di vedere e indicare lo zampino di Berlusconi o di qualche suo amico, come si sta facendo con le stragi mafiose del 1993. Ma torniamo a Fini e ai suoi sofismi. Nel dire ieri al Cavaliere, testualmente, che «deve smettere di pensare che i magistrati ce l’hanno con lui per ragioni politiche», il presidente della Camera ha dimenticato tutte le volte nelle quali, prima di rompere con lui, ha riconosciuto e criticato «l’accanimento» giudiziario del quale il suo alleato di allora era o poteva considerarsi vittima. Non si può decentemente cambiare opinione su cose del genere solo perché si è cambiato ruolo politico, passando dallo schieramento degli alleati di Berlusconi a quello degli avversari, dove il gioco è condotto per forza di numeri parlamentari ed elettorali dalla sinistra. Alla quale, peraltro, risulta un po’ stonato e claudicante l’invito apparentemente responsabile rivolto dal presidente della Camera «a smettere di pensare che sarà un processo a far cadere» il Cavaliere. Per essere coerente e credibile questo invito non può contenere anche una difesa pregiudiziale dei magistrati che accusano il presidente del Consiglio, o il rifiuto altrettanto pregiudiziale delle accuse ch’egli rivolge loro. Il solo modo di disinnescare la carica, le attese e l’uso politico dei processi a carico di chi guida il governo era quello di sospenderli durante l’esercizio del suo mandato, come si è più volte cercato di fare con leggi che la Corte Costituzionale, smentendo anche le valutazioni del capo dello Stato, si è ostinata invece a bocciare. Ma da questa ostinazione il presidente della Camera, e molti altri con lui, si guardano bene dal dissentire pubblicamente, unendosi invece alle proteste ogni volta che Berlusconi si permette di criticare una Corte che pure nacque fra i dubbi di costituenti illustri e insospettabili come Palmiro Togliatti e Pietro Nenni, che la consideravano «una bizzarria». E indusse il 20 giugno 1952 l’allora presidente del Consiglio Alcide De Gasperi a scrivere così al suo vice Attilio Piccioni, che se ne stava occupando per varare la legge di disciplina o attuazione: «Diffido dell’Alta Corte, che diventerà - temo - un corpo politico paralizzatore». Parole sante, scritte da un vero statista.