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Una ciambella riuscita. Senza il buco

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi

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La morale del sottile "scontro istituzionale" fra il Quirinale e il presidente del Consiglio sul tema del rimpasto è che non sempre le ciambelle riescono con il buco. La "tirata d'orecchi" del capo dello Stato può essere letta - e, con molta probabilità, questa era l'intenzione di Giorgio Napolitano - come una condanna delle decisioni del Premier, come un sintomo di malessere della più elevata carica dello Stato di fronte ai successi di Berlusconi, prima ancora di essere un invito a sottoporre il governo alla verifica di un nuovo passaggio parlamentare. Si tratta di una mossa squisitamente politica che conferma il carattere "interventista", e poco "notarile", impresso da Giorgio Napolitano, con iniziative fondate su una lettura estensiva dei suoi poteri, alla propria presidenza. Non si comprende, però, in concreto, che cosa il Colle si attenda da una nota, inusuale nella forma oltre che nella sostanza, volta a sottolineare le distanze rispetto alle scelte del premier, se non quello un "moto di dispetto" davanti all'incontestabile dato di fatto di un centro-destra, che mostra di sapersi rafforzare anche quando appare maggiormente in difficoltà. Un "moto di dispetto" che sarebbe più nello stile di quel "desparecido" della scena politica che è l'attuale presidente della Camera ridotto ad assistere impotente al fallimento del suo partito oltre che del suo progetto antiberlusconiano. L'argomentazione della nota del Quirinale è semplice: il rimpastino di qualche giorno fa ha sostanzialmente cambiato la natura della coalizione di maggioranza con l'immissione di uomini provenienti da altre forze politiche e, segnatamente, dall'opposizione. Ne consegue che il governo, essendo cambiato, avrebbe bisogno di essere legittimato da un nuovo passaggio parlamentare. In apparenza il discorso non farebbe una piega se non fosse per il fatto che la prassi del rimpasto - cioè nella sostanza la pratica di intervenire sulla compagine di un governo in carica senza prevedere le dimissioni dell'intero gabinetto - ha avuto modo di manifestarsi tante volte nella storia parlamentare del paese senza dare luogo a rilievi. E, ancora, se non fosse per il fatto ulteriore che nessuna osservazione analoga è stata mossa dal capo dello Stato quando, qualche tempo fa è stato nominato un sottosegretario proveniente da una forza politica estranea alla maggioranza: anche in quel caso si sarebbe dovuto parlare, a rigor di logica, di modifica della "composizione politica" del governo. A tutto ciò si deve aggiungere che, in questi ultimi tempi, a partire dal 14 dicembre scorso, il governo ha di fatto ottenuto più volte la fiducia. E proprio con il supporto esplicito e dichiarato dei parlamentari (e quindi della loro forza politica di riferimento) chiamati a far parte del governo. Si tratta di considerazioni ovvie, alle quali si potrebbe aggiungere ancora il richiamo al fatto che il capo del governo ha piena libertà di azione nella scelta della sua squadra di governo, tant'è che potrebbe teoricamente ricorrere a personalità anche non elette in Parlamento - è il caso, per esempio, dei cosiddetti ministri tecnici - indipendentemente dalle loro convinzioni politiche. Da un punto di vista strettamente formale non si vede, dunque, perché il governo dovrebbe sottoporsi di nuovo al voto del Parlamento cercandone una fiducia che questi ha già, e più volte, espresso. A meno che, con un bizantinismo giuridico, non lo si voglia considerare, toto corde, un nuovo governo. Se così fosse, però, la votazione sulla fiducia dovrebbe essere, a termini di legge, effettuata nei due rami del Parlamento entro dieci giorni dalla firma dei decreti di nomina e quindi, verosimilmente, prima delle elezioni e non già dopo, come hanno deciso di fare, secondo la nota congiunta diffusa ieri, i presidenti di Camera e Senato. Detto tutto questo, però, al di là della questione formale e da un punto di vista di stretta convenienza politica, il centro-destra fa bene ad andare al voto di fiducia. Non tanto per compiacere il Colle e neppure per incassare un nuovo successo parlamentare. Quanto piuttosto per veicolare l'idea della legittimità, se non della necessità, di riequilibrare completamente tutti gli organismi parlamentari, a cominciare dalle commissioni, a seguito dell'asserito cambiamento di "natura" della maggioranza. Ieri il nostro direttore, Mario Sechi, unico fra i commentatori politici, ha colto questo punto accennando al diritto-dovere della maggioranza di sfruttare questa occasione per rimettere in discussione la composizione attuale delle commissioni che non riflette più, ormai, il rapporto di forze esistente in Parlamento. E, si potrebbe aggiungere, per riaprire il discorso sulla legittimità della permanenza alla guida della Camera di un esponente di partito che fa politica attiva e che - se si sottoponesse alla verifica del voto - sarebbe, con molta probabilità sfiduciato. Una "conseguenza inintenzionale", direbbe il grande Karl Popper, dell'"intenzionale" antiberlusconismo del capo dello Stato. Una occasione, dunque, offerta dalla ciambella senza buco del Quirinale.

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