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I primi 5 anni di Giorgio, presidente «migliorista»

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GiorgioNapolitano è l'undicesimo presidente della Repubblica e il primo presidente che proviene dal gruppo dirigente del Partito Comunista Italiano. La sua biografia personale e quella storia politica non facevano presagire che sarebbe diventato un Capo dello Stato così popolare. Nel Pci di Palmiro Togliatti, Napolitano stava con Giorgio Amendola. Nel 1956 era entrato nel Comitato centrale, e non aveva condannato l'invasione dei carri armati a Budapest. Nel 2006 aveva riconosciuto da tempo quello e altri errori. Nel gruppo dirigente storico del Pci era stato il più dialogante, l'apripista dello «strappo» con Mosca decretato da Enrico Berlinguer nel 1976 quando il segretario del partito disse di sentirsi più sicuro sotto l'ombrello della Nato. Napolitano, oggi europeista convinto, nel Pci fu anche l'artefice dell'approdo alla socialdemocrazia europea, dell'apertura di un canale di confronto con i democratici degli Stati Uniti. Oggi è un ammirato interprete dei problemi e degli umori del paese. I suoi messaggi di fine anno sono seguiti mediamente da 13 milioni di italiani. È accolto ovunque con rispetto e calore, anche nel cuore scettico del Nord leghista come si è visto durante le celebrazioni del 150° dell'Unità d'Italia. Napolitano ha questo appeal, soprattutto fra i giovani, anche se da leader politico, non era uno che mandava in delirio le folle. La demagogia e il comizio non sono nelle sue corde. È un intellettuale raffinato che ama la musica e il teatro, che parla un inglese con accento british. A lungo, nel Pci, fu responsabile della Cultura e poi degli esteri. È stato parlamentare per 39 anni, si è occupato di economia e di Mezzogiorno. È stato presidente della Camera, e per due anni, durante il primo governo Prodi, ministro dell'Interno, "padre" della prima legge per regolare l'immigrazione. Con questo passato, Napolitano ha affermato al Quirinale il suo profilo peculiare di «presidente politico», cioè di un alto magistrato della Repubblica che, in base alla precedente esperienza politica e parlamentare (la «longstanding esperience» ricordata da Barack Obama, quando l'ha salutato come vero leader italiano) interviene sulle questioni pubbliche restando però sempre super partes. Questi cinque anni al Colle sono stati tutt'altro che una passeggiata. Ma Napolitano ha superato tutti gli esami che spettano a un Capo dello Stato. Ha mostrato equilibrio di fronte ai cambiamenti di governi e di maggioranze; è sopravvissuto al "fuoco amico" degli scontenti del centrosinistra oggi all'opposizione (in particolare alle critiche di Di Pietro); ha dimostrato indipendenza dal suo partito di provenienza e dal mondo sindacale, non risparmiando richiami severi anche a questi interlocutori, ogni volta che l'ha ritenuto necessario (smettetela di litigare, ha detto ai leader sindacali e alla sinistra cui ha ricordato la necessità di essere «credibili» e propositivi se non si vuol restare in eterno all'opposizione). Negli ultimi mesi, con la crisi libica, ha avuto il battesimo da capo supremo delle forze armate. Di fronte a molte incertezze ed esitazioni, ha esercitato questo ruolo per affermare il dovere dell'Italia di partecipare all'intervento militare nell'ambito del mandato Onu per fermare il massacro della popolazione civile («non potevamo e non possiamo restare indifferenti»). Ma ciò che più di tutto ha laureato Napolitano leader bipartisan è stato forse il richiamo costante a riportare il confronto e lo scontro politico nei limiti propri di una matura democrazia parlamentare.

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