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La morte in diretta

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QuiPakistan, risponde Washington. Sembra Hollywood e invece siamo al centro del potere globale, dove ogni mossa è una questione di vita e di morte. La decisione della Casa Bianca di diffondere questa foto è essa stessa un pezzo di storia, un altro pezzo di un mosaico che si sta ricomponendo. Dieci lunghi anni di caccia all'uomo, di guerra tonante e silenziosa con il terrorismo trovano un finale sorprendente, al di là della nostra immaginazione. Questa foto «umanizza» ogni cosa, riporta i fatti nel mondo della realtà, quello dove si soffre, si trepida, si accende o spegne la speranza con una raffica di mitra, un boato, un silenzio improvviso, un urlo, un comando che ritarda. L'assalto al rifugio di «Geronimo» - il nome in codice di Bin Laden per la Cia - ci riporta a una dimensione terrena, alla nuda e cruda realtà dei conflitti. Lo schermo rende tutto virtuale, la sensazione è quella di un videogame, ma se guardate bene questi volti, ogni singola increspatura della pelle, il brillìo degli occhi, la tensione di un braccio, è impossibile non cogliere il momento fatale, l'attimo che fa scoccare la freccia del destino. Anche questa è democrazia. Nella sua espressione contemporanea, fatta di tecnologia, di partecipazione, «sharing» della sconfitta (l'11 settembre 2001) e della vittoria (l'uccisione di Bin Laden), dramma classico e tecnologia, parole ancestrali (vita e morte) e parole nuove come Twitter e Flickr. Senza saperlo un testimone aveva «twittato» il primo secondo del blitz in casa dello sceicco, senza alcuna remora la Casa Bianca ha diffuso la foto della propria attesa, dell'atto finale di una storia che doveva concludersi con la cancellazione di Osama da parte di Obama. Il presidente americano sta dimostrando tutta la sua abilità di comunicatore. Ogni notizia ha un obiettivo, ogni immagine un significato. L'amministrazione americana si muove con la sicurezza di chi sa di non aver sbagliato il colpo. È paziente, glaciale, non ha fretta. Il Grande Nemico ora riposa in fondo al mare. E gli speculatori somigliano a un branco di squali che si muovono vorticosamente in una piscina. Non sanno dove andare, il loro orizzonte è limitato. Le teorie cospiratorie impazzeranno, poi al momento opportuno Barack darà l'ordine di mostrare le foto, i video, tutte le prove di una missione di successo. L'11 Settembre 2001 l'America era smarrita, ferita. Il primo maggio del 2011 è una falange che marcia verso il suo obiettivo unita. Le guerre in Iraq e in Afghanistan non hanno avuto lo stesso risultato dell'uccisione di Bin Laden. Perché la prima regola della guerra è quella di uccidere il comandante dell'esercito nemico. La Cia sembra tornata efficiente come ai tempi della Guerra Fredda. Leon Panetta confessa ad alcuni deputati in visita a Langley che sì, sembrava proprio di stare nel set di un film di Hollywood. È sua la voce che rompe il silenzio ovattato della situation room: «Hanno raggiunto l'obiettivo». Pausa. «Vediamo Geronimo». Pausa più lunga. «Geronimo Ekia!». Enemy killed in action. Nemico ucciso nell'azione. Solo a quel punto lo sguardo impietrito del presidente Obama si è sciolto. Un lievissimo sorriso, poi dalle dalle labbra del commander in chief sono uscite queste parole semplici e definitive: «We got him». L'abbiamo preso. Bentornata America.

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