Obama sulla strada di Bush
L'11settembre al posto delle Torri Gemelle rimasero lacrime e terrore, ieri c'era una folla giubilante che sapeva di esser stata infine ripagata per quel lutto. Per quei newyorkesi in festa la morte di Osama è stato molto più che un evento simbolico seppure di portata planetaria. Le vittime, il dolore dei parenti, le vite spezzate, la città bombardata erano i segni concreti della potenza di Al Qaeda nel momento del suo culmine, mentre il cadavere del Nemico parla di un potere prossimo alla consunzione. Oggi molti si sforzeranno di sostenere che la morte di Osama Bin Laden non cambia molto nella lotta al terrorismo globale e che il capo di Al Qaeda era ormai poco più di un vecchio reduce, privo di qualsiasi capacità operativa e ormai quasi dimenticato dal mondo. Eppure il giubilo di New York ci dice che Osama non era dimenticato e non era inoffensivo e che la sua morte era dovuta esattamente nei termini in cui è giunta. George W. Bush l'aveva promessa al popolo americano e al mondo civile già nelle ore subito successive agli attentati. E aveva previsto che non sarebbe stata una cosa semplice e rapida ma avrebbe comportato un impegno di lunga gittata e di nuova concezione: la guerra al terrore. Parlando davanti al Congresso riunito in seduta comune il 20 settembre 2001, Bush annuncia al suo Paese e a mondo «un lunga battaglia come non se ne sono mai viste, dove le nazioni saranno chiamate a scegliere: o con noi o contro di noi». E Bush ne prevede l'esito: «Il corso di questa guerra è ancora sconosciuto ma sappiamo quale sarà il finale: libertà e paura, giustizia e tirannide sono sempre stati in guerra, ma sappiano che Dio non è neutrale». E a queste parole che si è ricongiunto Obama nel breve discorso con cui ha annunciato l'uccisione di Bin Laden, riconnettendosi alla trama profonda che unisce gli americani: «Ricordiamoci che siamo capaci di cose come queste non per il nostro potere o la nostra ricchezza, ma per quello che siamo: una sola nazione, indivisibile, nel nome di Dio». Così, a dieci anni di distanza, il cerchio si è chiuso e anche se Obama ha cambiato nome alla guerra al terrore, è a Bush che ha fatto riferimento e reso omaggio perché la strada per scovare il responsabile dell'11 settembre l'aveva indicata e percorsa lui per primo e la destinazione è stata raggiunta sotto lo stesso Dio e la stessa bandiera. La stessa forza che l'America - e l'Occidente - traggono dalla fine dell'epopea osamiana avrà peso uguale e contrario nell'Islam radicale e nelle sue molte filiazioni. Anche su questo versante il fattore simbolico e quello sostanziale si intrecciano saldamente. Al Qaeda era già indebolita da dieci anni di guerra senza quartiere che hanno ridotto le sue capacità organizzative, di addestramento e di finanziamento. La lunga lista di attentati falliti di questi ultimi anni - dalla bomba a Time Square nel maggio 2010, all'aereo di Natale passando per il "panty bomber" con l'esplosivo nelle mutande -sta a testimoniare di queste crescenti difficoltà. Ma è anche vero che nel mondo decine di piccole cellule terroristiche o anche solo di singoli kamikaze - come nel caso della bomba a Marrakech della settimana scorsa - trovavano ispirazione e incoraggiamento nella sfida all'Occidente costituita dall'inafferrabilità di Osama Bin Laden e si sentivano parte di una avventura immensa e vittoriosa. Ora tutto questo è cambiato: il mondo arabo conosce bene la differenza tra battaglie vinte e battaglie perse, fa parte del suo linguaggio ben più che le mani tese o i trattati di pace, e questa indubbiamente è una battaglia persa. Se gli americani hanno preso Osama vuol dire che la sua copertura è saltata e che Al Qaeda è infiltrata al punto di renderla un pericolo più per i suoi amici che per i suoi avversari. I servizi segreti di Islamabad avranno valutato anche questo quando hanno deciso di accompagnare il blitz finale contro il nascondiglio di Osama. E ora dovranno anche spiegare come faceva a trovarsi a pochi passi di una importate base militare pakistana. Questo certo non vuol dire che il terrorismo radicale sia stato sconfitto ovunque e per sempre. Potremo anche assistere ai dei ritorni di fiamma e la morte di Osama può innescare rappresaglie e vendette. Sarà anche un'occasione per far emergere nuove verità dai sommovimenti medio-orientali: come il plauso dell'Autorità palestinese alla notizia dell'uccisione e il biasimo di Hamas, alla vigilia della loro riconciliazione. Ma quello che resta davvero è la remunerazione riservata all'autore della strage dell'11 settembre, inflitta con il coltello tra i denti, perché è così che si combatte il terrore, anche nell'epoca delle guerre umanitarie e delle benedizioni onusiane. È bene che lo sappiano vecchi e nuovi dittatori, vecchi e nuovi terroristi.