La vittoria finale sa di menzogna È ancora guerra
Ammazzatoda quattro colpi, uno alla testa e tre al corpo, dopo un conflitto a fuoco con 14 Navy Seals, penetrati nel suo rifugio superprotetto. Erano alle costole di Osama da agosto. In realtà, si tratta di una caccia all'uomo durata anni. Una simbolica mai appannata, che vede in Bin Laden il Nemico nel senso schmittiano del termine. Il Nemico merita la morte e, una volta ucciso, giustizia è fatta. Il copione è rigoroso e così deve essere. Obama ha, infatti, pronunciato numerose volte la parola «Justice«, nel suo discorso dopo l'Evento. Sono 9.46 minuti in cui gli USA tornano ad essere la Nazione unita dalla fede nella libertà. Non è retorica, né «voce dal sen fuggita» del premio Nobel per la Pace. «Giustizia è fatta», recita il titolo del Washington Post. La chiave di lettura è chiara: si tratta della coincidenza dell'azione dello Stato al servizio dei cittadini americani violentati dal crollo delle Torri Gemelle e del sentimento popolare che bramava giustizia. La sacrosanta giustizia di Stato. Il NYT ricorda che Osama era «il volto più ricercato del terrorismo», l'icona del Male. L'Hitler mediorientale. Il Ricercato perenne. «Wanted: dead or alive». La memoria storica è importante, sempre, ma in questi casi ancora di più. Alla domanda ruvida di un cronista al Presidente George W. Bush, sei giorni dopo l'11 settembre: «Lei vuole Bin Laden morto?» - è sempre il NYT a rinfrescare la memoria -, scatta, secca, la risposta: «Lo voglio morto, voglio giustizia». C'è un vecchio manifesto nel nostro West, che dice: «Ricercato: vivo o morto». E Obama ha dato il disco verde alle truppe speciali per tradurre il vecchio manifesto del West americano in pratica militare, la più efficace: chiudete la partita col Nemico. Gli USA sono la Nazione del filo rosso e della simbolica coesiva, anche quando il rosso è il sangue del Nemico. Oggi tutti uniti in piazza a festeggiare la vittoria della Nazione, poco importa che sia la Right Nation della destra o la favola della new age obamiana, «yes, we can«. Oggi quel «yes, we can» si è tradotto in azione e la fase della simbolica di massa, con tanto di indagine sulla fine del corpo del Nemico, è già dietro di noi. Di tutti noi. Sì, perché, quando si dice 11 settembre e crollo delle Torri Gemelle, mica sono tutti d'accordo: l'Occidente compatto contro il terrorismo islamico è un mito. Per converso, molti occidentali considerano l'Occidente - in quanto tale - un incubo: abbiamo i nemici in casa. Questa è la verità. Leggete i commenti al video dell'uccisione di Osama, con i distinguo, i «non ci credo, tutta fuffa, come il crollo delle Torri Gemelle, etc.». Signori, questo è il nostro mondo. Dobbiamo difenderci dai nemici esterni e dai cavalli di Troia interni. Guardia sempre alta. Infatti, Obama non ha cantato vittoria, come quel generale che, dopo aver vinto, si ritrovò i nemici alle spalle. Il terrorismo è vivo ed è in mezzo a noi. Il fondamentalismo islamico ama il meticciato interculturale e se ne serve per penetrare, comprare, catturare consensi (capita anche questo) e, alla fine, colpire. La globalizzazione del terrore non esiste, ci sono i luoghi che si meticciano e si contaminano, dappertutto, e dove ci sono le condizioni, arabi di quarta generazione diventano protesi di Al-Qaeda. Che colpirà, dopo aver perso lo Sciamano e il Califfo, creatore del terrorismo meta-statuale, da network e franchising organizzativo. Osama si trovava in Pakistan e questo fatto allunga la linea d'ombra sugli «alleati» degli USA o presunti tali. Alla fine, ecco, il terrorismo islamico si configura come il dinamismo mortale che rimette in moto il pendolo del mondo. Non ci sono scorciatoie e considerare il corpo devastato di Osama il viatico della vittoria finale sa già di menzogna rassicurante. Il popolo americano è in festa e anche noi siamo americani. Ma siamo ancora in guerra.