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Giorgio vuole che si esca dagli equivoci

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Oaccettano davvero o dissentono apertamente dall'ennesimo richiamo ai doveri di «coesione sia politica sia sociale» che il presidente della Repubblica ha rivolto ieri a tutti dal Quirinale, in occasione della festa del Lavoro. Nel rinnovare il suo appello alla coesione nazionale, chiedendo con polemica ironia se «si teme davvero che possa prodursi un eccesso di consensualità, o un rischio di cancellazione dei rispettivi tratti identitari e ruoli essenziali», il capo dello Stato ha probabilmente risentito anche del fastidio procuratogli in questi giorni dal confuso e strumentale balletto delle mozioni per il dibattito di martedì prossimo alla Camera sulla guerra in Libia. Che peraltro l'inesauribile Gheddafi proprio ieri ha minacciato di «trasferire in Italia», dopo «il crimine» che il suo «amico Berlusconi» avrebbe commesso accettando la richiesta della Nato di partecipare ai bombardamenti autorizzati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Lo scopo, si sa, è di contrastare di più la sanguinosa repressione della rivolta popolare in quel Paese. Gli interlocutori più diretti del presidente della Repubblica nella cerimonia al Quirinale erano, in verità, i rappresentanti sindacali e quelli istituzionali. Ma i temi e i toni trattati sono andati ben oltre la platea che egli aveva di fronte. Non poteva che riferirsi anche ai partiti, e particolarmente a quelli dell'opposizione, quando ha sollecitato «attenzione sulle più ambiziose proposte di riforma, come quella fiscale, delineate dal governo e sulle indicazioni da esso prospettate con impegno per le politiche e azioni più rilevanti ai fini dell'occupazione, della formazione del capitale umano, dell'evoluzione dei rapporti tra mondo dell'impresa e mondo del lavoro». Altro che il governo immobile lamentato dalla Cgil, a volte anche dalla presidentessa della Confindustria, o disperatamente chiuso nei problemi giudiziari del presidente del Consiglio, secondo la rappresentazione che ne fanno sul versante partitico i soliti Pier Luigi Bersani, Antonio Di Pietro, Pier Ferdinando Casini, Francesco Rutelli e, buon ultimo in ordine di arrivo, Gianfranco Fini quando si scorda di essere il presidente della Camera. O, peggio, si serve della visibilità del suo ruolo istituzionale per farsi sentire di più come oppositore. Il governo è lì con il suo presidente del Consiglio, con i suoi ministri, con le sue proposte e la sua linea di contenimento del disavanzo e del debito pubblico, da cui non si può onestamente prescindere per imboccare la strada della ripresa e garantire – ha avvertito il presidente della Repubblica – «la stessa tenuta civile e democratica del Paese». Le opposizioni, almeno quelle che si ritengono e vogliono essere responsabili, non quelle certamente del no a prescindere, e quindi dello sfascio, non possono prescinderne e sottrarsi al confronto. Questo è il succo del richiamo del capo dello Stato, con un pizzico più che giustificato d'insofferenza, come si è già accennato, per certa «ipocrisia» con la quale molti elogiano le sue parole, le sue analisi, le sue raccomandazioni per disattenderle e tradirle un attimo dopo, non appena si presenta loro la possibilità di tentare un'altra spallata, o solo di alzare un altro polverone, peraltro sottovalutando il rischio di «pagare prezzi pesanti in termini di consenso». Anche questo si è giustamente premurato ieri di dire il presidente della Repubblica.

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