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Basta piagnoni. Perché il Cav con la Francia ha tirato diritto

Silvio Berlusconi

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Quando i luoghi comuni si materializzano in politica e prendono a bighellonare come gli alieni di X-Files possono produrre effetti devastanti: questo rischio si è visto in formato tridimensionale dopo il summit tra Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy. E dunque vai con la grandeur transalpina contro l'autolesionismo ed il piagnonismo italiano. Secondo la Lega saremmo divenuti «una colonia francese», mentre slittano consiglio dei ministri dedicati non a bazzecole ma alla guerra sulla Libia. Commentatori di area centrodestra affermano che l'Italia ha ceduto Draghi, Parmalat e i nostri aerei militari alla Francia, mentre questa ci impone di tenerci gli immigrati. Al coro non poteva non unirsi il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, le cui maniche arrotolate sono direttamente proporzionali all'apodittica linearità delle analisi: «Contro di noi i francesi hanno fatto cappotto». Bene, vediamo che cosa è successo. L'Italia accetta di partecipare a missioni armate di missili sulla Sirte, al pari di una decina di altri paesi, mettendo fine all'ipocrisia dei nostri aerei che volano ma non sparano. Questa dei costosissimi Eurofighter, Tornado, Harrier che ogni volta si trasformano in una sorta di rombanti granturismo è una storia che dura dalla guerra del Kosovo, 12 anni fa, governo D'Alema. Allora ci si invento la «difesa attiva», e molti alti gradi militari hanno poi rivelato che si trattava di una balla. Stavolta abbiamo impegnato Tornado Ecr per neutralizzare i radar di Gheddafi, giurando che l'accecamento non comportava l'impiego di nessuna «arma offensiva». Sarebbe interessante chiedere come avviene (magari attraverso l'invio di un sms?), ma il problema è superato: il Raìs non ha più né aerei né radar; dunque occorre tirare missili. Finora l'Italia non li ha voluti impiegare, benché li venda a mezzo mondo, dando l'impressione di stare in guerra senza voler vincere. In questo modo, però, non si guadagnano né i favori di un eventualmente redivivo Gheddafi, che ci considera comunque traditori, né quelli dei ribelli, probabili vincitori, il cui capo Ahmud Jibril è stato ricevuto a palazzo Chigi e al Quirinale, con tutti gli onori e riconoscimento formale. Il quale può chiedersi perché mai il futuro governo libico dovrebbe rinnovare contratti petroliferi e commesse industriali ad un Paese che dice di stare con lui, ma a condizione di non dare dispiaceri al suo più feroce nemico. Sintetizziamo che cosa c'è in ballo. La Libia è il nostro primo fornitore di energia, con un quarto del greggio ed il 12 per cento del gas che importiamo. I suoi contratti con l'Eni valgono 25 miliardi di dollari per i prossimi 40 anni; le commesse di 230 aziende italiane ammontano a tre miliardi l'anno; per Tripoli siamo il primo partner commerciale, mentre gli investimenti libici in Italia spaziano dall'Unicredit all'Eni alla Finmeccanica. Se questi contratti verranno o meno rinnovati, se gas e petrolio continueranno a rifornire le nostre case, auto, aziende, dipende anche da come agirà l'Italia all'interno di una coalizione militare alla quale, ricordiamolo, nessuno l'ha obbligata a partecipare. Poteva restarne fuori, come Germania o Russia. Ma dal momento che ha deciso di giocare questa partita e indossare questa maglia, è come se finora si sia rifiutata di muoversi dal cerchio di centrocampo. Capitolo immigrati. Come si è visto proprio con Gheddafi, l'unico modo di impedire che sbarchino da noi è bloccarli ai punti di partenza. Il Raìs, da quando abbiamo rotto i rapporti, ha ripreso ad inviarci i barconi. Il governo provvisorio di Jibril si è impegnato a fermarli non solo sulle loro coste, ma alle frontiere del Sudan, del Chad, dell'Egitto, dell'Algeria. Poi c'è il mercato. A guerra finita dal Marocco all'Egitto potrebbe aprirsi uno spazio da 200 milioni di persone, età media 26 anni, finora sottopagati, maniaci osservatori dei nostri consumi attraverso la tv e quel poco di internet con cui peraltro fanno miracoli. Ecco: ogni volta che parte una missione o un missile, francese o italiano, è questo che è in gioco. Cinismo? È sempre stato così dopo ogni guerra. Lo si è saputo fin dall'inizio, e lo sanno benissimo anche i capi politici e militari degli insorti, in gran parte ex del vecchio regime, abituati da decenni a trattare in questo modo con l'Occidente. Per qualche misterioso motivo tutto questo fa indignare la Lega, come se Umberto Bossi avesse lì la sua trincea e i suoi valori. Ma il Carroccio non è sempre stato a favore dell'autodeterminazione? Analogamente ci sfugge perché si consideri l'endorsement di Sarkozy alla candidatura di Mario Draghi alla Bce una sorta di autogoal. In Germania, paese di riferimento bossiano, pensano esattamente il contrario, ed infuriano le polemiche contro Angela Merkel, accusata di lasciarsi sfuggire a favore di un «latino» la cassaforte dell'euro. Infine la Parmalat. Eravamo per la difesa dell'italianità dell'azienda di Collecchio, ed Il Tempo lo ha scritto chiaramente. Così come siamo sempre favorevoli alla tutela di industrie e settori strategici sotto la mira di capitali esteri. Però questa trincea non si può difendere solo con la Cassa depositi e prestiti; a meno di non disegnare un'altra Iri. Non ce ne scandalizzeremmo: solo che non si può fare così all'impronta, e soprattutto non per la Parmalat se poi si lasciano esposte la telefonia, le infrastrutture, l'hi-tech. Conosciamo il solenne malumore che martedì mattina ha colto Giulio Tremonti quando ha saputo dell'opa di Lactalis: ma che altro può decidere il governo? Il decreto antiscalate è stato approvato il 23 marzo: in un mese nessuna cordata italiana è stata capace di accordarsi per contrastare i francesi. Soprattutto, nessun imprenditore italiano ha voluto mettere mano al portafoglio per tirar fuori l'unica cosa che conta: i soldi. Che ne pensano i nostri (ex) capitani coraggiosi? Che ne dice la Confindustria? E l'opposizione, sempre pronta a chiedere la famosa politica industriale? Quale politica, se poi gli imprenditori se la danno a gambe? I francesi hanno lanciato un'opa agendo secondo mercato. C'è un solo mezzo per rispondere: una contro-opa. Ma appunto servono denari. Si dice che la Lactalis voglia finanziare i 4,5 miliardi dell'offerta di acquisto con il miliardo e mezzo custodito nelle casse di Parmalat. Che vorrà cedere rami industriali (tra questi anche la Centrale del latte di Roma). Sul primo punto, ne abbiamo viste di peggio sull'asse Torino-Milano: comunque la Consob e il fisco sono lì per vigilare e seguire quale via prendono i soldi. Sul secondo, abbiamo sindacati e partiti che contro i piani industriali di Marchionne hanno scomodato la Costituzione. E dunque, tengano gli occhi aperti.

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