Le ciance di Ciancimino
Temo nuove, strabilianti prove di quella strana cultura dell’antimafia che accomuna certi magistrati, giornalisti e intellettuali di cui il compianto e inascoltato Leonardo Sciascia seppe prevedere e denunciare i danni. Neppure adesso che una perizia chimica -si chiama così- ha finalmente messo con le spalle al muro e con le lacrime agli occhi il cosiddetto super-testimone Massimo Ciancimino, uno dei magistrati che più ne ha raccolto e inseguito ricordi, allusioni, carte, a volte persino i sospiri, sembra tentato dal sospetto di avere perduto il suo tempo. O di averne sottratto troppo a inchieste magari meno clamorose ma più consistenti. Parlo del procuratore aggiunto Antonio Ingroia, di cui le cronache giudiziarie riferivano ieri una curiosa distinzione fra credibilità generica e specifica proprio a proposito di Massimo Ciancimino. Di cui pure egli ha tempestivamente, e perciò meritoriamente, bloccato un viaggio di vacanza verso la Francia imputandogli il grave reato di calunnia, che allunga la sua già nutrita lista di pendenze giudiziarie, e procurandogli l’arresto. La credibilità generica del figlio di Vito Ciancimino, il non compianto sindaco mafioso di Palermo, può essere stata compromessa anche agli occhi di Ingroia, bontà sua, dalla ormai documentata manipolazione di uno dei documenti da lui consegnati a rate ai pazienti magistrati, a volte in originale e a volte in fotocopia. È risultato manipolato, in particolare, quello in cui si buttava nel tritacarne dei sospetti di complicità con la mafia anche l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro. Al quale è capitata però la fortuna di incontrare sulla sua strada, specie ora che ha compiti ancora più delicati e importanti, il perito giusto per smascherare l’imbroglio e uscirne meglio di quanto gli sia accaduto a Genova, sempre a livello giudiziario, per i disordini scoppiati durante una sfortunata edizione dei ciclici vertici dei grandi della Terra. Tuttavia Ingroia non è convinto che con la credibilità, diciamo così all’ingrosso, il suo supertestimone abbia perso anche la credibilità al dettaglio. «Ci sono comunque sue dichiarazioni -ha testualmente dichiarato, e sinora non smentito, l’ormai celebre magistrato di Palermo- che stanno in piedi a prescindere dalla sua credibilità generica». Sarò magari troppo malizioso, andreottianamente portato a credere che a pensare male si faccia peccato ma qualche volta s’indovini, se non spesso o addirittura sempre, ma dietro le parole di Ingroia scorgo puzza della ormai vecchia, anzi logora, pista berlusconiana nelle indagini coltivate in più procure della Repubblica, al Nord e al Sud, sulle stragi mafiose del 1992 e del 1993. Che supertestimoni, pentiti, pseudopentiti e collaboratori vari di giustizia hanno incoraggiato gli inquirenti - anche se taluni sospettano che siano stati invece da questi ultimi incoraggiati- a collegare alla gestazione di Forza Italia e all’esordio politico di Silvio Berlusconi nel 1994. Tutto con il solito contributo dell’altrettanto solito Marcello Dell’Utri, che per essersi affrettato a commentare lo sgonfiamento di quel pallone che egli ha sempre considerato Massimo Ciancimino, si è procurato l’abituale dose di dileggio da parte degli avversari suoi e del Cavaliere. La cervellotica pista berlusconiana delle stragi mafiose, in verità, si è autocondannata con l’improvvido abbinamento alle indagini sulle famose «trattative» fra lo Stato e la mafia. Nelle quali si stanno delineando con crescente e inquietante evidenza le responsabilità dirette o indirette di uomini politici, anche di altissimo livello istituzionale, e di governi impegnati fra il 1992 e il 1993 non certo a preparare la volata di quell’intruso che già allora era considerato Berlusconi, ma a prolungare le loro prospettive di potere e di carriera. A questo proposito i magistrati e la Commissione parlamentare antimafia non hanno potuto fare a meno di prenotare come testimoni o già di ascoltare, fra gli altri, l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e gli allora presidenti del Consiglio Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, ministri dell’Interno Vincenzo Scotti e Nicola Mancino e ministri della Giustizia Claudio Martelli e Giovanni Conso. È una lista né breve né politicamente inconsistente, bisogna ammetterlo. Se anche a causa di questi elementi la traccia berlusconiana dietro lo scenario delle stragi di mafia del terribile biennio 1992-93, coincidente peraltro con quello delle clamorose indagini giudiziarie sul finanziamento illegale della politica, dovesse risultare estranea al lavoro o solo al pensiero di Ingroia, sarei naturalmente il primo a rallegrarmene. Ed anche a chiedergli umilmente scusa di avere sospettato o solo temuto il contrario. E persino a perdonargli, pensate un po’, con spirito di attualità pasquale, le critiche che ho condiviso a quel suo recente e infelice discorso in Piazza del Popolo, a Roma, durante una manifestazione dall’indubbio carattere politico contro il governo in carica e i suoi legittimi propositi di riforma della giustizia. Un discorso che, proprio per le circostanze in cui fu pronunciato, e per il pubblico al quale era rivolto, mi sembrò francamente simile più a un comizio che a un saluto, o ad una distaccata riflessione di cultura o esperienza giudiziaria.