Bossi fa la crisi beduina
{{IMG_SX}}Anche se ne avesse avuta lontanamente la voglia, la campagna elettorale per le amministrative di metà e fine maggio, fra primo turno e ballottaggi, non poteva permettere a Umberto Bossi di starsene zitto. O di protestare solo a bassa voce di fronte all'aumento dell'impegno militare italiano in Libia e al rasserenamento intervenuto nei rapporti tra Italia e Francia, sui temi spinosi dell'immigrazione e dell'economia, dopo l'incontro romano fra i presidenti Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy. Neppure le opposizioni potevano in fondo lasciarsi scappare l'occasione, essendo anch'esse in campagna elettorale, per gridare allo scandalo e rappresentare scenari di crisi reclamando, fra l'altro, nuove verifiche parlamentari di una maggioranza che sanno benissimo di non poter rovesciare. Ad esse basta e avanza sollevare un po' di polverone, magari sperando di poter trarre qualche vantaggio nelle urne amministrative così dense di incognite per le loro divisioni e per la debolezza di molti dei loro candidati. Ma è una speranza mal riposta perché le loro scomposte reazioni sembrano piuttosto destinate a favorire paradossalmente sia la Lega sia il presidente del Consiglio. Le proteste leghiste sono infatti la più clamorosa ed evidente smentita della campagna avviata in particolare dal Pd di Pier Luigi Bersani contro il cosiddetto «appiattimento» del Carroccio sulle posizioni, sulle scelte e addirittura sugli «interessi» dell'odiato Cavaliere, a cominciare naturalmente da quelli di natura giudiziaria. L'immagine della Lega che esce fuori dalle polemiche di Bossi sulle questioni libica e francese non sembra proprio quella del partito a rimorchio del Cavaliere rappresentata da Bersani per sobillarne la base. Berlusconi, dal canto suo, si rivela l'opposto di quel succube di Bossi e, più in generale, della Lega rappresentato con particolare insistenza e acrimonia dai suoi ex alleati di centro e di destra Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini, indotti alla rottura in epoche diverse, a sentir loro, proprio dal ruolo eccessivo che il presidente del Consiglio avrebbe lasciato al Carroccio. Come si è visto invece proprio in quest'ultimo delicato passaggio dell'azione di governo, il Cavaliere non è lo sprovveduto che si lascia dettare agenda e linea dal suo pur prezioso alleato. Egli piuttosto ha saputo e sa conservare intatta la propria autonomia, forte non solo del suo temperamento ma anche del largo credito elettorale di cui dispone. L'uno e l'altro gli consentono, quando ne ravvisa l'opportunità o necessità per la rilevanza dei problemi e delle circostanze, di puntare i piedi, di farsi valere e di recuperare il dissenso che può di tanto in tanto incontrare nella guida di quella che è pur sempre una complessa coalizione governativa. Gli è già successo di fare alla fine «ragionare» Bossi e tutto lascia ritenere che gli succederà anche questa volta, come d'altronde ha lasciato capire ieri il capogruppo della Lega alla Camera. Gli avvoltoi dovranno rassegnarsi a prolungare la loro penosissima dieta, per fortuna del Paese. Che di tutto avrebbe bisogno in questo momento fuorché di una crisi e di un altro scioglimento anticipato delle Camere, a soli tre anni di distanza dall'ultimo, provocato dalla dissoluzione della fantomatica «Unione» guidata da Romano Prodi. Per le circostanze in cui nacque, mentre si decomponevano gli equilibri politici e sociali della cosiddetta Prima Repubblica, e si è poi sviluppata e consolidata elettoralmente, la Lega è di certo un partito in qualche modo anomalo. È un partito insieme di lotta e di governo. Che Berlusconi ha avuto l'abilità e il merito di sottrarre alle originarie pulsioni secessionistiche avviando concretamente, non a parole, l'evoluzione federalistica dello Stato unitario nato 150 anni fa. La combinazione leghista di lotta e di governo può risultare ostica alla parte, diciamo così, più tradizionalista o conservatrice della cultura e dell'elettorato, come ben sappiamo qui a Il Tempo. Il cui direttore Mario Sechi è spesso e volentieri chiamato un po' a raccogliere e un po' a contenere le preoccupazioni o le proteste dei lettori per le estemporanee iniziative di esponenti anche autorevoli del Carroccio. Ma gli ultimi a potersi impancare a giudici in questa materia sono certi sapientoni di sinistra transitati, con la loro prosopopea, dal Pci al Pd attraverso le varie sigle seguite al miserevole crollo del comunismo. Il primo partito dichiaratamente, anzi orgogliosamente di lotta e di governo nella storia della nostra Repubblica è stato il Pci del non dimenticato e da molti ancora rimpianto Enrico Berlinguer. Al quale bastò, nella ormai storica rappresentazione di una vignetta di Giorgio Forattini su La Repubblica, sentire sfilare in vestaglia sotto le finestre di casa un corteo di protesta di metalmeccanici per rimettere in discussione il ritorno nella maggioranza appena conseguito appoggiando esternamente nel 1976 un governo monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti. Non è che Bersani sia di una pasta molto diversa dal suo antico maestro.