Sergio e Giulio sempre nel mirino
«Wilma dammi la clava». Così il popolare Fred della saga dei Flintstones, nota serie di cartoni animati conosciuti in Italia come Gli Antenati, chiamava in soccorso la moglie quando si trattava di mettere ko un avversario. La stessa clava che quei «brontosauri» della Seconda Repubblica, avversi a ogni forma di novità e soprattutto di attivismo, brandiscono appena si presenta l'occasione. Ovvero appena qualcuno esce dal coro del conformismo e apre una strada nuova mettendo in discussione rendite di posizione, privilegi consolidati e equilibri pietrificati. Dà quindi fastidio se un Tremonti o un Marchionne, gli alfieri del «nuovo» e del «fare», sparigliano le carte in tavola. Il ministro dell'Economia e l'amministratore delegato della Fiat sono quasi due «alieni» in questa «foresta pietrificata» che è il sistema italiano della politica e delle relazioni sindacali. È vero che il carattere non li aiuta. Entrambi spigolosi, fanatici del lavoro, con qualche stravagante mania. Insomma antipatici come sempre lo sono i primi della classe. L'uno che non si fa problemi di presentarsi a Obama in maglioncino, figurarsi a Palazzo Chigi; l'altro che carta e penna impartisce lezioni di economia in Consiglio dei ministri col piglio professorale e ogni volta sembra dire: zitto tu che non capisci nulla. Marchionne ha osato l'inosabile: fare a meno di Confindustria, portando la Fiat con Fabbrica Italia fuori dal salottino buono dell'industria e prospettando di trasferire la sede a Detroit dopo aver conquistato il controllo di Chrysler. Una prospettiva che ha mandato su tutte le furie la Fiom, potente sindacato dei metalmeccanici e la Cgil della Camusso (che ha riportato la confederazione indietro di un decennio) che fingendo di ignorare che solo la creazione di un gruppo mondiale può salvare Fiat dalla concorrenza e quindi salvare posti di lavoro, esauriscono tutto il piano di Marchionne alla questione marginale della sede. Preoccupati entrambi che l'arrivo del modello americano mandi in soffitta un vecchio sistema di relazioni industriali basato sullo scambio consociativo tra sindacati e imprese. Poco importa se l'United Auto Workers, il maggiore sindacato americano dell'auto, abbia accolto Marchionne come un salvatore mentre la Fiom presenta una raffica di ricorsi contro il nuovo sistema di regole introdotto a Pomigliano e Mirafiori e ora fa le barricate perchè nulla del genere accada anche alla ex Bertone. La Maserati sarà prodotta altrove? Non importa, basta difendere il vecchio meccanismo che lascia al sindacato il potere di condizionare la produzione. Ma il supermanager del Lingotto si è trovato contro anche la Confindustria. La Marcegaglia così solerte a inneggiare alla competitività non gli ha perdonato lo strappo che ha messo in discussione la struttura di viale dell'Astronomia aprendo la strada a altre diaspore. Appena può la presdiente non perde occasione per fare dei distinguo: ultimamente ha auspicato che la produzione della Maserati possa restare nello stabilimento di Grugliasco mentre Marchionne pensa di spostarla negli Stati Uniti visti i contrasti con la Fiom-Cgil. Il progetto rivoluzionario di Marchionne ha trovato una debole sponda, a corrente alternata, nel governo. Tiepidi i ministri dello Sviluppo economico e del Lavoro, Romani e Sacconi, indifferenti gli altri. Nemmeno a parlarne a sinistra. Nel Pd solo Piero Fassino non gli dà contro, consapevole che è un percorso obbligato imposto dai tempi. Gli altri oscillano tra il silenzio carico di imbarazzo e la condivisione esplicita alla Cgil. Stessa solitudine e ostilità per Tremonti. Certo il carattere è quello che è con quel suo modo di non mandare a dire le cose e di trattare spesso e volentieri i colleghi ministri come degli «scolaretti». Glielo ha rimproverato la Prestigiacomo che ebbe l'ardire di contestargli in un animato Consiglio dei ministri il taglio ai finanziamenti per il dissesto idrogeologico. «Stefania, poi ti spiego» le disse lui con aria paterna. Scontro meno plateale ma non meno duro con l'ex ministro Scajola che si vide sfilare, una dopo l'altra, deleghe strategiche. Proverbiali gli scontri con Renato Brunetta. I soliti maligni dicono che sia stato Giulio, o «il mastino» come lo chiamano nel Pdl, a imporre a Berlusconi di non metterlo allo Sviluppo Economico. Che dire poi dell'ex ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi che non riuscì a contrastargli i tagli alla cultura e nella lettera di dimissioni gli mandò più di una frecciata polemica. Il suo successore Galan, è cronaca di questi giorni, a momenti apre una crisi di governo proprio per essersi spinto troppo in là contro Tremonti. Non un fastidio personale ma il megafono di una insofferenza verso il superministro che percorre tutto il Pdl, tranne la Lega (è evidente) e che ha contagiato anche l'imperturbabile Gianni Letta. Lo storico braccio destro di Berlusconi ha dovuto digerire che Tremonti gestisse in totale autonomia le nomine dei vertici delle società partecipate direttamente dal suo dicastero o attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, Eni, Enel, Finmeccanica e Terna. In tutto quasi 200 miliardi di ricavi e 90 di capitalizzazione in Borsa. Uno dei maggiorenti preso per il braccio Berlusconi lo ha messo in guardia: guarda che Giulio mentre tu ti occupi di giustizia, ti sfila il Paese...