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Il socialismo di Giulio non è un handicap

Il Ministro dell'Economia Giulio Tremonti

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La provenienza socialista rinfacciata al ministro dell'Economia Giulio Tremonti come un torto, come causa dei voti che potrebbero mancare al Pdl nei prossimi appuntamenti elettorali, o sarebbero già mancati in passato alla coalizione berlusconiana impedendone affermazioni maggiori, è l'aspetto più bizzarro della polemica aperta dal neo-ministro Giancarlo Galan. Che le circostanze hanno portato alla guida del dicastero forse meno indicato per lui, quello della cultura, visto che la sua offensiva contro il collega di governo e di partito zoppica proprio sul piano culturale e storico. Tremonti, o il suo carattere, può piacere o no ma nessuno può scambiare per un handicap la sua appartenenza alla migliore tradizione socialista. Che è quella riformista, perfettamente coniugabile con la tradizione liberale, alla quale Galan ritiene probabilmente di appartenere mostrando però di non conoscerla a fondo. Fu proprio la pratica del socialismo riformista a consentire a Bettino Craxi di restituire al Psi l'autonomia dai comunisti, compromessa dal suo predecessore alla segreteria Francesco De Martino, e di guidare poi governi di coalizione estesi dal suo partito a quello liberale, passando naturalmente per la Dc. Dal cui radicamento sociale e culturale e dalla cui forza elettorale non si poteva certamente prescindere. Dei meriti e della modernità di quei governi, negli anni Ottanta, Galan dovrebbe ricordarsi, non foss'altro per gli effetti sperimentati da Pubblitalia, l'azienda berlusconiana nella quale lui si è fatto, diciamo così, le ossa. Fu grazie a quei governi che cadde il monopolio pubblico della Rai-Tv, sostenuto strenuamente dall'opposizione comunista, dalla sinistra democristiana e dai pretori cosiddetti d'assalto. Che ordinarono l'oscuramento della Tv commerciale di Silvio Berlusconi, salvata poi non da uno ma due decreti legge di Craxi, firmati senza alcuna esitazione anche dall'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, socialista pure lui. A quei governi si deve inoltre il coraggio di avere tagliato con la scala mobile dei salari le unghie all'inflazione, fra le proteste demagogiche della sinistra politica e sindacale. Che il segretario del Pci Enrico Berlinguer aizzò sulla strada di quel suicidio che fu il referendum anticraxiano. Di che cosa dunque parla, o ciancia, il povero Galan quando mostra fastidio, o qualcosa anche di peggio, per la provenienza socialista di Tremonti? Ma sbaglia anche l'ex democristiano ed ex ministro Claudio Scajola quando, a dispetto della fiducia giustamente e prontamente confermata da Berlusconi in persona a Tremonti, raccoglie e in qualche modo rilancia la polemica di Galan attribuendo al ministro dell'Economia presunti ostacoli alla ripresa dello sviluppo economico. D'altronde, appartengono alla tradizione del socialismo riformista, che potremmo pure chiamare liberalsocialismo, alla Rosselli, anche altri eccellenti ministri scelti da Berlusconi nella sua squadra di governo come Renato Brunetta, Franco Frattini e Maurizio Sacconi, in ordine rigorosamente alfabetico. È stata una scelta coerente, del resto, con la decisione presa dal Cavaliere tra la fine del 1993 e l'inizio del 1994 di scendere in politica fondando Forza Italia. Egli volle allora riempire il vuoto creato dalle ghigliottine giudiziarie, e dai fattori annessi, nell'area politica e sociale del «pentapartito». Che era l'alleanza di governo fra democristiani, socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali, passata per le guide non solo di Craxi ma anche di Francesco Cossiga, Arnaldo Forlani, Giovanni Spadolini, Giovanni Goria, Ciriaco De Mita, Giulio Andreotti e Giuliano Amato: tutti succedutisi a Palazzo Chigi fra il 1979 e il 1993, dopo la parentesi della partecipazione dei comunisti alla maggioranza di «solidarietà nazionale» apertasi nel 1976. Prima ancora di Berlusconi, in verità, l'idea di accorpare in qualche modo l'area elettorale del pentapartito era venuta nel 1993 ad Amato, l'ex braccio destro di Craxi, con la proposta di arrivare alle elezioni dell'anno dopo con liste comuni, magari federate. Ne scrive nel suo libro appena pubblicato sulla fine della Dc l'allora e ultimo capogruppo alla Camera Gerardo Bianco. Che riferisce impietosamente dell'improvvido e istantaneo rifiuto opposto dal suo partito, ormai avviato al suicidio sotto la guida di Mino Martinazzoli. Per fortuna, anche se Bianco non arriva a questa conclusione, ci fu Berlusconi. E c'è ancora, per quanti errori il Cavaliere abbia potuto compiere, per quanta guerra gli abbiano fatta gli avversari politici con l'aiuto della solita magistratura e per quanto prossima e volontaria possa essere una sua successione alla testa della vasta area elettorale e sociale da lui accorpata. Che rischia ora di essere compromessa non tanto dagli avversari esterni quanto dai malpancisti interni al Pdl, quelli insofferenti verso il «supponente», o «antipatico», o «socialista» Tremonti, e ciò che ha rappresentato, rappresenta e potrebbe domani rappresentare.

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