Senza partito non resta niente
A cosa serve un partito politico? A rappresentare (e imporre) gli interessi di un gruppo di uomini e donne. Questo nelle democrazie avviene attraverso le elezioni, dove i partiti presentano il proprio programma e su questo cercano il consenso. Siamo nella dimensione che Max Weber definiva la «sfera della potenza». Alle loro origini i partiti erano organizzazioni di notabili che prendevano la forma di comitati elettorali, dall'attività sporadica, la cui funzione principale era quella di eleggere uno o più candidati provenienti da una base sociale prevalentemente borghese. Lo scenario cambia radicalmente con la trasformazione del partito dei notabili in "partito di massa". Nascono così i politici di professione, l'attività del partito diventa permanente, la struttura organizzativa è quella di un vero e proprio apparato burocratico, la missione è quella di far partecipare gli associati alla vita civile. La base non è più quella dei notabili ma sono i lavoratori. Il suffragio parziale diventa universale. Che cosa è il Pdl? È un mix tra un'organizzazione di notabili (veri, finti, autopromossi o nominati) e un vivace partito-movimento di massa con un leader carismatico e una dose imbarazzante di anarchia interna. A cosa serve un siffatto partito? A rappresentare gli interessi di un largo gruppo di uomini e donne? Certamente. E poi? Naturalmente a partecipare alle elezioni. E chiuse le urne che si fa? Ah, perbacco, se si vincono le elezioni il Pdl serve a sostenere l'azione di governo, assicurare stabilità e portare a termine il programma con il quale si è conquistato il voto dei cittadini. In teoria, sempre più solo in teoria. Purtroppo per i liberal-conservatori italiani (e per il Paese) su questa parte della missione la formazione guidata da Silvio Berlusconi si sta rivelando più che un partito un asilo infantile privo di insegnanti. Perché solo un pulsione puerile, non razionalizzata, immatura, psicologicamente instabile, da biberon e lecca lecca, può spingere un partito che vale intorno al 30 per cento dei voti a demolire la propria immagine come sta accadendo da mesi. Le bischerate combinate sono tante, in questa pagina ne offriamo una piccola selezione. Ma basta e avanza per capire che così non si può andare avanti. Serve ordine e una rotta per il domani. Vabbè, il capo (Berlusconi) ha i suoi problemi con i magistrati che non sono proprio sereni con lui, si è concesso qualche distrazione impegnativa per la sua età e per soprammercato sappiamo che il partito non gli è mai piaciuto. Lo considera un peso. Eppure servirebbe proprio per evitare queste sceneggiate. Scoppiato il pasticciaccio brutto del Galan anti-Tremonti, a palazzo Grazioli si sono accorti che il piatto di fegato alla veneta era indigeribile. Che scoperta. Non è presentabile un menù politico dove il ministro più rappresentativo di questo governo, Giulio Tremonti, viene attaccato a freddo dal neo-ministro dei Beni Culturali Giancarlo Galan il quale avrebbe parecchie cose da fare al dicastero, ma decide di concedere un'intervista a Il Giornale, lasciandosi andare a considerazioni di varia (dis)umanità. Ecco a voi il florilegio di diplomazia e tatto: «Un socialista all'Economia ha commissariato il governo», «un liberale come me non può stare dalla stessa parte di un socialista», «con Tremonti si perdono le elezioni», «il centro delle decisioni del governo non può stare a via XX Settembre». Che meraviglia. A parte aver scoperto che Galan si crede erede di Benedetto Croce, la rappresentazione è quella di una ditta di demolizioni guidata talmente bene da dover costringere Berlusconi a metterci una toppa. Tutto finito? Macchè. La nota di Palazzo Chigi era ancora calda come una pizza in forno ed ecco Claudio Scajola dire a Giulietto che bisogna avere «più coraggio per lo sviluppo». E i soldi? Firmano due cambiali e poi le protestano? Temo che Tremonti prima o poi possa lasciare. Immaginate la scena: Galan, Scajola o un altro pincoppallino che si presentano a una riunione dell'Ecofin per gestire di fronte a un branco di squali il terzo debito pubblico del mondo. Ricordo bene quando nel luglio del 2004 misero Domenico Siniscalco al suo posto. Fu un'esperienza indimenticabile: Siniscalco piantò tutti un anno dopo a Finanziaria aperta. Nessuno sapeva dove mettere le mani. A malapena qualcuno maneggiava il pallottoliere. Rimise a posto la baracca lui, l'odiato Giulio. Tremonti ha molti difetti, ma ha un pregio che li batte tutti: è il politico italiano più credibile in Europa. E nel governo non lo sopportano perché ha impedito l'assalto alla diligenza e il fallimento dell'Italia. Io lo ringrazierei, ma vedo che nel retrobottega affilano lo stiletto. Occhio, finisce male per tutti: il berlusconismo e il tremontismo sono le due facce della stessa medaglia. Silvio ha i voti, Giulio la politica. Come definireste, cari lettori de Il Tempo, tutto questo? Per me è un gran casino. E mi chiedo come si possa pensare di governare altri due anni in queste condizioni. È come stare in un saloon dove Berlusconi fa la parte di quello con il cartello sulla schiena: «Non sparate sul pianista». Il governo non è il circolo dell'uncinetto, i ministri possono anche scannarsi, ma un partito che vuol chiamarsi tale, queste cose le fa nei consigli nazionali, nelle riunioni delle segreterie e nei congressi, non aprendo una faida interna sui giornali. Così tutto diventa Blob e carne da macello per Annozero. Non è più tempo per i giochetti, i protagonisti di questa battaglia non avranno prove d'appello. Le biografie parlano chiaro: è l'ultimo giro di giostra per quasi tutti. E proprio per questo un leader come Berlusconi dovrebbe manifestare un reale interesse a lasciare in eredità al blocco sociale che l'ha votato un'esperienza diversa, una storia che non si conclude con la sua uscita di scena. Il Cavaliere dovrebbe realizzare che o dopo di lui c'è il partito oppure non c'è più niente.