Quei giudici politici creati dalla sinistra
Pubblichiamo uno stralcio del libro «Discorso sulla giustizia, poteri e usurpazioni» edito da Liberilibri nel 2003. Il pamphlet raccoglie alcuni fra i meno noti ma più significativi scritti di Francesco Cossiga in tema di giustizia. Ci sono anche altri interventi che l’ex presidente della Repubblica ha svolto in Parlamento, ma che non hanno avuto diffusione al di fuori degli addetti ai lavori. Analisi, interrogativi, sollecitazioni e proposte che costituiscono un ricco materiale di riflessione su punti nevralgici della questione-giustizia. Vi sono casi nei quali quella che può sembrare una utopia è l’unica saggia realtà che però assurde condizioni politiche e preconcetti ideologici, coniugati talvolta in forma di aperte menzogne o di inconsapevoli ignoranze, non permettono di realizzare. Così è per la riforma della giustizia nel nostro Paese. E qui voglio delineare i contorni di una «riforma utopica», che sarebbe però l’unica riforma vera se fosse possibile! Anzitutto, perché non è possibile? Non è possibile perché, contro la vocazione storica e ideologica della sinistra in tutta Europa, in Italia la sinistra è ancora giustizialista e poliziesca. E questo per due motivi: perché, non essendovi stata per cinquant'anni la possibilità di una alternanza democratica, anzi neanche di una legittimazione democratica della sinistra, per motivi internazionali (l'America, l'Alleanza atlantica, la Chiesa Cattolica, la Comunità Europea e così via) e per motivi interni (ancora una volta la Santa Sede, quale organo supremo della Chiesa Cattolica, che ha visto nella esclusione dei comunisti la prima diga contro l'egemonia sovietica, che avrebbe limitato non solo l'indipendenza e l'autonomia dello Stato italiano, cosa che alla Santa Sede in realtà poco importava, ma per essere la sua sede un enclave del territorio italiano), non poteva non difendere ad oltranza l'indipendenza del nostro Paese come condizione della propria; e poi in più essere diventata la Democrazia Cristiana, da partito riformista secondo il progetto di Don Sturzo, il partito di raccolta anticomunista, e quindi di fatto il partito anche degli afascisti e dei postfascisti e non solo dei democratici antifascisti. La sinistra dunque da un lato ha cercato di aprirsi una strada giudiziaria al socialismo, organizzando in fazione parte della magistratura; e dall'altro ha ricercato una sua legittimazione repubblicana, interna e internazionale, più che nel largo consenso che otteneva da operai, pensionati, artigiani e contadini, nella lotta frontale con la temuta sovversione di sinistra, sia in forme di estrema collaborazione poliziesca con gli organi dello Stato, sia avallando quella legislazione di eccezione, che perdurò anche nel tempo, a motivo del fatto che la magistratura comprese ben presto che attraverso essa sarebbe diventata almeno in parte un potere politico. Legislazione e prassi giudiziaria d'emergenza che fu fondante di una cultura, il giustizialismo, che peraltro aveva già antiche radici ideologiche nel giacobinismo di certa borghesia italiana – ad esempio quella azionista – e nella tradizione leninista- stalinista del Pci. La sinistra non riesce a liberarsi né di questa cultura giustizialista, dopo esserne stata sacerdotessa tra i suoi elettori, né dell'alleanza con l'ala «militante» della magistratura, di cui non dovrebbe accettare il potere politico, ma il cui potere politico invece accetta perché essa ha qualche interesse politico coincidente con alcuni dei propri. E la riforma della giustizia in senso utopico, l'unica efficace, è oggettivamente ostacolata anche dalla destra, e anche questa volta per due ordini di motivi: componente essenziale di essa è un partito storicamente postfascista ma culturalmente reazionario e fascista, nel senso del suo ricollegarsi all'unica filosofia che la destra italiana abbia mai avuto, e cioè l'idealismo totalitario alla Giovanni Gentile. Il mito dello Stato quale soggetto etico, e della legge dello Stato non quale «convenzione democratica» ma quale «legge morale». Inoltre, quello che dovrebbe essere centro-destra democratico è soprattutto interessato alla soluzione, comunque, di casi particolari, ed è stato fraudolentemente convinto che l'abbandono del suo progetto iniziale di riforme e la sostituzione di esse con abborracciamenti di leggi «su misura» possa essere il «prezzo di scambio», per l'esercizio di altissime influenze costituzionali, che possano muovere a pietà o a indulgenza giudici o magistrati militanti! Quanto quindi verrò esponendo fa parte di una «utopia» che però sarebbe l'unica «efficace realtà», e che io ormai ho affidato non alla speranza ma soltanto ad un desolato sogno! Quali quindi i punti essenziali di una effettiva riforma, che serva a instaurare finalmente uno Stato di diritto che l'Italia, tra liberalismo di origine idealista, fascismo di origine hegeliana autoritaria, cattolicesimo politico per sua natura proclive ad una concezione inquisitoria della giustizia e una cultura comunista basata sull'«è come dovrebbe essere» (e quindi al fine di un tipo di processo che non sia dramma ricostruttivo della storia, ma finzione scenica sostitutiva di essa), e che nel diritto e nel processo che di esso è il momento vivente ha sempre visto – dal Terrore giacobino a quello stalinista, eventi terribili ma grandiosi rispetto alla modestia e meschinità di «Milano», «Palermo» e «Perugia» – lo strumento per la realizzazione di fini politici di classe e di partito, pur sempre non ha mai conosciuto? Anzitutto occorrerebbero riforme che portassero alla realizzazione di un vero e proprio processo accusatorio, con una effettiva terzietà del giudice e una effettiva parità tra le parti, sia private che pubbliche. Ma questo processo accusatorio ha il suo ineliminabile presupposto in una concezione del pubblico ministero come parte pubblica e cioè come organo amministrativo dello Stato, titolare – come nella concezione di common law – del potere di accusa e quindi del potere di promozione dell'azione penale, quale forma particolare e concreta d'esercizio della funzione di esecuzione che è quindi compito del potere esecutivo. E questo pubblico ministero quindi non può che essere responsabile secondo quella che è la responsabilità propria del potere esecutivo. Da ciò deriva non solo la necessaria inderogabilità della divisione delle carriere dei giudici da quelle dei pubblici ministeri, ma l'organizzazione del pubblico ministero secondo principî di unità, impersonalità e indivisibilità e secondo un principio di gerarchia, che non porta necessariamente alla subordinazione di esso al Governo – come nella maggior parte degli Stati moderni – ma almeno della sua costruzione con un vertice, la cui nomina spetti o sia approvata dal Parlamento e che verso il Parlamento sia responsabile, almeno per le linee generali della politica giudiziaria, nel suo aspetto esecutivo di realizzazione della pretesa punitiva dello Stato. Altro presupposto del processo accusatorio è quello della non obbligatorietà dell'azione penale, non soltanto per motivi ideologici e di principio, ma soprattutto per motivi di realismo giudiziario e di prevalenza anche solo eventuale degli interessi supremi dello Stato rispetto alla soddisfazione della pretesa punitiva. La obbligatorietà dell'azione penale, specie nella concezione infatti della legittimazione diffusa all'esercizio di essa, fa sì che l'esercizio dell'azione penale stessa, di fronte alla moltitudine dei reati portati a sua conoscenza, diventi di fatto discrezionale e di una discrezionalità cui non corrisponde alcuna responsabilità da parte dell'ultimo «ragazzino» addetto ad un ufficio del pubblico ministero! Vi sono inoltre dei casi in cui gli interessi internazionali dello Stato richiedono che l'azione penale non sia esercitata o non sia comunque soddisfatto l'interesse alla soddisfazione della pretesa punitiva dello Stato. Ciò è accaduto in via di fatto anche nell'attuale sistema in relazione alle leggi!: basti pensare alla consegna clandestina di terroristi arabi, posti in libertà provvisoria dal giudice istruttore e fatti «evadere» dal Governo tramite il nostro servizio segreto e consegnati nell'isola di Malta alle organizzazioni palestinesi come pegno di buona volontà, in cambio dell'impegno al non svolgimento di azioni terroristiche sul territorio nazionale. O, altro caso, la mancata esecuzione del mandato di cattura emesso da un giudice veneto contro Arafat che venne sottratto durante la cerimonia per le esequie di Enrico Berlinguer, prima da me attraverso l'asilo prestatogli nel mio alloggio di Presidente del Senato a Palazzo Giustiniani e poi dalla protezione accordatagli, con una robusta scorta di elementi dei reparti speciali della Polizia di Stato e dell'Arma dei Carabinieri. Quando gli ufficiali di Polizia giudiziaria incaricati dell'esecuzione del mandato finalmente individuarono il luogo dove si trovava Arafat, e cioè l'aeroporto militare di Ciampino, quando essi vi giunsero, l'aereo privato egiziano che lo trasportava guarda caso era già decollato! Le utopiche riforme sopra delineate sono copiate dagli ordinamenti in vigore negli Stati Uniti a livello federale e statale, in Canada a livello federale e provinciale, in Irlanda, nel Regno Unito, nel Portogallo, in Spagna, nei Paesi del Benelux, in Svizzera a livello confederale e cantonale, nella Repubblica Federale di Germania a livello federale e statale, e così via. In Francia non vige la separazione delle carriere: ma i magistrati che accettano di essere inquadrati negli organi del pubblico ministero vedono sospese le garanzie specifiche dei magistrati e sono sottoposti allo statuto generale degli impiegati civili dello Stato, anche sotto il profilo disciplinare, dipendendo gerarchicamente dal Ministro della giustizia. Questo può loro impartire istruzioni e ordini scritti, anche riguardo alla promozione o al ritiro dell'azione penale, il cui esercizio non è naturalmente obbligatorio, come non lo è naturalmente in nessuno degli altri paesi sopra indicati. Altro elemento di una riforma utopica dovrebbe essere la deburocratizzazione della magistratura, ancora governata da un regime di tipo impiegatizio, alla prussiana, basato sui cosiddetti «pubblici concorsi», con forti elementi di cooptazione familiare, di casta e di correnti e proprio dei regimi monarchici assolutisti e dei regimi autoritari o anche solo semi-autoritari; deburocratizzazione da realizzare mediante un più ampio e qualificato accesso alla magistratura (da «arruolare» solo tra avvocati, notai, funzionari di polizia, ufficiali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, professori di diritto, funzionari di prefettura etc.), con una successiva formazione specifica in apposite scuole, con la non promovibilità dei magistrati stessi (il magistrato è nominato a quel posto e, salvo altra nomina, in esso permane per la vita, come è appunto nell'ordinamento giudiziario inglese, salvo la progressione della carriera economica per anzianità) e comunque per una ulteriore «nomina» e non «promozione» a più alte funzioni, con una preventiva e severa valutazione di merito. Necessaria è poi la esclusione dall'esercizio di qualunque funzione politica e di sovraordinazione a qualunque titolo su giudici e su pubblici ministeri da parte del Consiglio superiore della magistratura, organo che secondo la Costituzione è di sola alta amministrazione, e quindi da riportare alla sua posizione e natura di organo non costituzionale, ma solo, e forse, di sola cosiddetta rilevanza costituzionale, come stabilito dalla Costituzione, poi «violata» dalla legge ordinaria di applicazione, che gli conferì improprie funzioni ulteriori. La riforma deve essere incentivata nel rafforzamento massimo delle garanzie di indipendenza dei singoli giudici, che come organi singoli e non come corpo sono investiti dalla Costituzione della funzione giurisdizionale: e questo anche sotto il profilo di una tipizzazione legislativa degli illeciti disciplinari dei magistrati, al fine di sottrarli all'arbitrio della determinazione caso per caso da parte del Consiglio superiore della magistratura di ciò che sia «lecito» e di ciò che sia «illecito», e quindi mediante la creazione di una vera e propria giurisdizione disciplinare distinta dal Csm, imparziale e non dominata quindi dalla logica del baratto tra le correnti, eventualmente attribuita ad un organo eletto ad hoc da magistrati e Parlamento o, ancor meglio, costituito mediante estrazione a sorte. Il metodo di scelta di alcune delicate cariche pubbliche mediante estrazione a sorte, antichissimo e familiare a grandi democrazie come quella greca e come la Repubblica di Venezia (vedi ad esempio l'ufficio degli eliasti, dei buleuti, degli arconti, degli eutynoi), è forse l'unico capace di scongiurare la piaga della politicizzazione del magistrato e quindi della parzialità del giudizio. Ma tutto questo è al massimo un sogno, e neanche una utopia! Preliminare a ciò (e questa riforma potrebbe essere non relegata nel sogno e neanche utopica, ma almeno possibile) è la netta separazione tra pubblico ministero e giudice da una parte e Polizia giudiziaria dall'altra, attribuendosi ai primi la possibilità di diretta utilizzazione, ma senza rapporto di dipendenza, della Polizia giudiziaria medesima a cui, e non ai pubblici ministeri e ai giudici, spetterebbe la «scoperta» dei reati e la raccolta delle prove, salvo il potere del pubblico ministero di dettare indirizzi o di valutare l'opera della Polizia giudiziaria ai fini di una utile promozione dell'azione penale, con la facoltà quindi di disporre una ulteriore prosecuzione delle indagini ad integrazione delle prove. E ciò per evitare i «fallimenti» dei pubblici ministeri che, per essere esperti di diritto romano e civile, non per questo sono per loro natura esperti delle indagini; e per evitare quella progressiva deprofessionalizzazione della Polizia giudiziaria che è uno dei pericoli che incombono nel momento presente e ancora più in una futura prospettiva. E vorrei concludere, invitando chi legge a riflettere su una considerazione di fondo che ho maturato nel corso della mia lunga partecipazione alla vita del nostro Paese, come semplice cittadino, come studioso di diritto, come parlamentare, come ministro, come Presidente del Senato, come Presidente del Consiglio, come Presidente della Repubblica, e infine come senatore a vita. Ebbene, queste esperienze mi hanno insegnato almeno tre cose: che quello della giustizia è il più grave dei problemi del nostro Paese; che il problema della giustizia, ancor prima che giuridico, tecnico e politico, è un problema di ordine culturale, e direi addirittura di etica pubblica è un problema che attiene alla coscienza, al senso di dignità del cittadino, al suo amore per la libertà; che il principale ostacolo alla soluzione di questo problema è la pervicace ostinazione di una parte dei magistrati nel concepire il proprio ufficio non come servizio, ma come potere. Il mio auspicio è che quella parte dei magistrati non politicizzati, non affetti da protagonismo o da delirio di onnipotenza – e che costituisce fortunatamente io credo, o almeno spero!, la maggioranza della magistratura –, si desti dal suo acquiescente torpore, dando il suo leale contributo al legislatore per realizzare quella indilazionabile riforma che renda l'apparato giudiziario non nemico ma presidio delle libertà.